Scrivere di A caccia dell’orso è certamente difficile, giacché per il suo essere un classico moderno della letteratura per l’infanzia, tutto, o molto, è stato detto in merito. Ritengo però che, vista la nuova edizione di Mondadori, in libreria dal 3 marzo, sia giusto approfittarne per consigliarne la lettura o l’ascolto a tutti i bambini, per molti perché.
Il primo è la qualità della struttura narrativa sia per parole che per immagini.Michael Rosen (autore prolifico di cui però mi risulta che solo A caccia dell’orsosia tradotto in italiano) e Helen Oxenbury (della quale in italiano si possono trovare È in arrivo un bambino per Motta junior e 10 dita alle mani e 10 dita ai piedini per Il Castoro) costruiscono un albo che come prima qualità ha quella di essere vivo e dinamico. A caccia dell’orso comincia sin dalla copertina che è essa stessa narrativa, anticipa la storia e si svolge anche sulla quarta.
A caccia dell’orso – Michael Rosen, Helen Oxenbury, 1989 – Mondadori / Walker Books Ltd 2013
Una famiglia numerosa costituita dal papà, da quattro bambini di diverse età e un cane s’avvia decisa e allegra verso un’avventura fantastica e pericolosa: armati solo di un bastoncino vanno a caccia di un orso, anzi “dell’orso”. Il primo capitolo (la divisione in capitoli o quadri scenici viene naturale) si svolge su doppia pagina, è un acquerello in bianco e nero dinamico e fortemente impressionista: un campo fitto e alto si frappone tra gli avventurieri e l’orso; in prima fila, temerario, a braccia alzate e col suo bastoncino biforcuto in mano, uno dei fratelli avanza senza timore, segue il papà, con il neonato sulle spalle sorridente e sereno, nelle retrovie, ma proprio di fronte al lettore, la sorellina minore, tra il divertito e l’incoraggiante, trascina la maggiore, che, un po’ timorosa cerca di fare resistenza, mentre il cane, allegro e sfrenato, procede a grossi balzi. Si dipinge così un quadretto di attitudini ed emozioni vario e vasto nel quale ogni bambino potrà trovare il protagonista in cui immedesimarsi, l’emozione in cui rispecchiarsi. In alto a sinistra una filastrocca/canzoncina “A caccia dell’orso andiamo. Di un orso grande e grosso. Ma che bella giornata! Paura non abbiamo.” Filastrocca che si ripeterà ogni volta che gli avventurieri si imbatteranno in un ostacolo; e l’ostacolo lo si incontra in alto a destra: un campo! “Oh oh! Un campo! Un campo di erba frusciante! Non si può passare sopra. Non si può passare sotto.” Adattato alle diverse situazioni anche questo testo si ripeterà all’occasione. Ma allora qual è la soluzione? “Oh no! Ci dobbiam passare in mezzo!” La soluzione è semplice: andare, affrontare, superare, valicare, immergersi. Insomma, la soluzione è provare.
Si volta la pagina e “Svish svush! Svish svush! Svish svush!” un blocchetto di testo, sulla pagina di sinistra si staglia nero su bianco e in cornice su un acquerello a colori, sempre su doppia pagina, che cita teneramente e vivamente I papaveri di Monet, riportandoci all’impressionismo di cui è espressione vivace e allegra. Così comincia il ritmo, l’alternanza tra quello che precede la micro avventura incastonata nella macro avventura, bianco e nero che si avvicenda al colore pieno (colore che dall’essere luminoso e vivace tende gradatamente a scurirsi verso il finale della storia), filastrocca che s’avvicenda con l’onomatopea e induce ìl bambino a imitare, a ripetere, a cantare (a battere le mani, l’ho visto in numerosi filmati ripresi durante gli altrettanto numerosi laboratori). E tra pennellate e rime la famigliola guaderà un fiume freddo e profondo (e splish e splash), un pantano, affronterà una tormenta di neve, fino all’apice della storia: una grotta. Di fronte a quest’ultima il neonato e il cane, portatori di un timore che è ferino, che è istintivo, cercano di dissuadere gli altri che, al contrario, spiano curiosi cercando di vedere attraverso il buio fitto; il cane si mostra immobile, impaurito, a orecchie basse, il piccolo agisce, invece, tirando per la gonnellina la sorella.
Quella che fino a quel momento non era stata che una fantasticheria si concretizza in una splendida pagina sui toni dell’ocra che vede improvvisamente contrapposti il cane e un orso. Un orso vero, in pelo, carne e ossa (e unghioni).
Qui si interrompe la ritmicità lenta, che fino a questo momento si era adattata all’avanzare del gruppetto, cercando di rispecchiare quasi il tempo dell’azione, e incomincia un rocambolesco e veloce percorso a ritroso: le due pagine questa volta sono divise ciascuna in tre settori stretti, che si svolgono in orizzontale e quindi, nonostante siano sottili, risultano ariosi, quasi un susseguirsi di fotogrammi montati in sei scene. Indietro nella grotta (brrrrrrr! brrrrrrr! brrrrrrr!), indietro nella tempesta (Fiuuuuuu huuuuu! Fiuuuuuu huuuuu! Fiuuuuuu huuuuu!), indietro fino a casa ma con una differenza: l’orso li insegue ed è anche parecchio arrabbiato. La doppia pagina seguente riduce i quadri a quattro, l’avventura è al culmine e l’emozione anche. Le immagini trasmettono frenesia e timore. Poi però si volta pagina ed è un trionfo morbido e soffice di rosa: un piumone sotto cui trovare riparo tutti assieme, tranne l’orso, naturalmente che, a spalle basse, mogio mogio, torna alla sua grotta.
Rimane invece nei lettori una sensazione di brio difficile a dileguarsi, la quale non sarebbe stata possibile senza l’ottima traduzione di Chiara Carminati grazie alla quale non si rimpiange l’originale.
Titolo: A caccia dell’orsoAutore: Michael Rosen, Helen Oxenbury
Editore: Mondadori
Dati: 2013, 36 pp., 14,00 €
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