da: Prefazione a “Osservatorio sull’Economia sociale e civile in Sardegna – IX Rapporto 2011″ (Iares), pp. 7-10.
Localismi, regionalismi, differenze e diseguaglianze sono state oggetto di studio da parte di ricercatori italiani e stranieri praticamente dalla nascita dello stato unitario, ed il concetto di capitale sociale, in tempi più recenti, è stato autorevolmente utilizzato per spiegare le nostre note peculiarità (alcuni le chiamano, meno gentilmente e più direttamente “stranezze”).
Alexis De Tocqueville
Il concetto guadagna infatti la sua vasta notorietà in Italia grazie allo studio di Putnam (1994) sulla tradizione civica delle regioni italiane. L’anno successivo Fukuyama, nel suo lavoro sulla fiducia (1995), cita l’Italia come caso emblematico di debolezza della fiducia e di capitalismo familiare. Si tratta però di un tema classico della sociologia. Il tentativo di spiegare in termini relazionali le differenze del “rendimento” democratico delle istituzioni ha il suo più illustre antesignano nel lavoro “La Democrazia in America” di Tocqueville (pubblicato nel 1835), che, come è noto, mette in relazione associazionismo, partecipazione civica e democrazia. Il rapporto fra valori e sviluppo economico era già stato ampiamente esplorato negli studi di sociologia della religione di Weber, fra i quali quello più frequentemente ricordato è “Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo” (del 1906).
Fiducia interpersonale ristretta e allargata, civismo, partecipazione, democrazia e sviluppo socio–economico sembrano essere indissolubilmente connessi l’un l’altro, a costituire in alcuni casi circoli virtuosi di sviluppo e benessere, in altri circoli viziosi di arretratezza, malfunzionamento delle istituzioni, sfiducia e familismo amorale. Se infatti il capitale sociale “soggettivo” (quello che nella definizione delle autrici della ricerca e del rapporto si rende disponibile agli attori sociali in base alle reti di relazioni in cui sono inseriti) può essere incrementato, almeno in parte, attraverso uno sforzo volontario, il capitale sociale “oggettivo”, o sistemico, consiste nelle norme sociali e nell’assetto istituzionale di un determinato contesto, ed è il prodotto storico di un percorso specifico: non può dunque, in una parola, essere volontariamente modificato, o quantomeno non nel breve periodo. Ecco dunque che, quando si tratta di capitale sociale, sembra sempre che piova sul bagnato.Alcune voci critiche hanno quindi sollevato la domanda: a che serve il concetto di “capitale sociale”? Certamente, si tratta di un concetto ampio e multidimensionale, per certi versi persino onnicomprensivo, soprattutto rispetto all’obiettivo di cogliere il quid in grado di fare la differenza fra assetti istituzionali che funzionano e assetti istituzionali che non funzionano (peraltro il “funzionare” è riferito ad obiettivi che restano talora poco chiari, e ai quali non tutti riconoscono un valore universale).
Gli studi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi quindici anni hanno tentato con un certo successo di operazionalizzare questo sfuggente concetto, e di applicarlo in contesti molto diversi, con metodologie altrettanto diversificate. Se questo crea un certo comprensibile disorientamento a chi sia in cerca di scuole di pensiero (forse scuole di pensiero unico), va detto che oggi è possibile individuare alcune dimensioni concettuali sulle quali possono essere fatti convergere i diversi approcci: reti sociali, specialmente di tipo “secondario”, e dunque “apertura”; corretto funzionamento delle norme, e dunque civismo da un lato e fiducia / aspettative positive dall’altro; associazionismo, partecipazione sociale e politica.
Nondimeno, il numero elevato di dimensioni concettuali implicate dovrebbe indurre a trattare il “capitale sociale” piuttosto come un modello euristico che come un possibile fattore esplicativo (cfr. ad es. Trigilia, 1999).
Intanto, come si è appena detto, il capitale sociale non pare potersi ridurre ad una variabile o ad un solo fattore. E del resto, se dei tanti diversi aspetti che compongono il concetto di capitale sociale, si riuscisse a dimostrare che solo uno o due fanno effettivamente la differenza, esso diventerebbe per ciò stesso sostanzialmente inutile, ancorché univocamente definito. È la legge del rasoio di Ockham: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Se, ad esempio, bastassero a spiegare lo sviluppo la quantità e la qualità dei legami deboli, oppure la fiducia, allora dovrebbe anche essere sufficiente fare riferimento appunto ai legami deboli o alla fiducia, senza alcuna necessità di ricorrere ad un concetto così complesso.
In secondo luogo, il capitale sociale sembra farsi apprezzare particolarmente quando non c’è. Se si analizza una “società arretrata” come quella descritta da Banfield (1958), è facile rilevare la mancanza di alcuni o tutti i fattori che abbiamo ricordati sopra. Andando però ad osservare una società ricca e/o aperta e/o democratica, si fa indubbiamente una cerca fatica a distinguere le cause dagli effetti, in un processo sicuramente ancorato a fattori storici, e in un funzionamento sistemico complesso e costituito da fattori interdipendenti. Il fatto stesso che la società “funzioni”, in una parola, indica la presenza di capitale sociale disponibile per i singoli attori.
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In questo senso, il concetto appare utile principalmente in chiave comparativa o idealtipica, per comprendere le differenze fra territori o anche fra ambiti sociali, mentre risulta alquanto vuoto — o al contrario ridondante — nel momento in cui lo si voglia applicare a vere e proprie iniziative politiche di sviluppo.Altro merito delle ricerche sul “capitale sociale”, come si diceva all’inizio, è stato quello di aver riportato in auge alcuni temi classici della teoria sociale (il ruolo delle reti, delle comunità locali, dei valori) che erano stati un po’ dismessi, a favore di modelli neoliberisti iper–individualistici (Streeten, 2002). E il quadro culturale generale nel quale si sono sviluppati – dominato dalla metafora del mercato – vale forse a comprendere le ragioni dell’adozione di espressioni tipiche del linguaggio economico come “capitale” o “rendimento delle istituzioni”.
Pur tenendo fermo il riferimento ad un modello di sviluppo inteso come crescita economica e sviluppo democratico delle istituzioni, questi studi hanno infatti da una parte sottolineato il ruolo delle relazioni e delle norme sociali come risorse per lo sviluppo, che vanno ad aggiungersi alle altre e che spesso sono in grado di fare la differenza; e dall’altra hanno evidenziato il ruolo del costituirsi del sociale dal basso — e quindi anche i limiti degli interventi dall’alto.
Dei risultati presentati in questo volume, mi permetto di sottolinearne alcuni, riferibili a quanto sin qui detto.
Prima di tutto, va rilevata, nel complesso della società sarda, una certa debolezza della fiducia, che è circoscritta quasi esclusivamente alle reti parentali: il che è come dire sostanzialmente assente. La fiducia nelle reti familiari e parentali è veramente il minimo necessario per garantire l’esistenza di un gruppo o di una comunità, piuttosto che la sua dissoluzione. Come in molte zone del nostro Paese (non solo del Mezzogiorno, di cui del resto la Sardegna non condivide la storia e la cultura), sembra prevalere anche qui il familismo da una parte, e il capitalismo familiare o di relazione dall’altra.
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Va però anche sottolineato come l’approccio adottato risulti fruttuoso nell’individuare importanti differenze fra le diverse (anzi, diversissime) aree della Sardegna, sottolineando il peso delle società “locali”: se il Medio-Campidano mostra maggiore staticità e chiusura, più aperta risulta essere la vita sociale e relazionale nella provincia di Carbonia-Iglesias.
Ai luoghi comuni sulla “chiusura” della società sarda (o della mafiosità del sud, o del familismo del nordest), questo tipo di indagini contribuisce insomma a sostituire una lettura più articolata della realtà, proprio grazie alla capacità di cogliere la pluralità delle dimensioni rispetto alle quali fallaci dicotome come “apertura / chiusura” o “sviluppo / arretratezza” possono essere utilmente ridefinite e riconcettualizzate.
Riferimenti bibliografici
Bagnasco, A. (1999). Teoria del capitale sociale e “political economy” comparata. Stato e mercato, (3/1999).
Banfield, E. C. (1958). The Moral Basis of a Backward Society. A Study of a Village in Southern Italy. Glencoe, Ill.: Research Center in Economic Developement and Cultural Change.
Fukuyama, F. (1995). Trust: Human Nature and the Reconstitution of Social Order. New York: Free Press.
Putnam, R. D., Leonardi, R., & Nanetti, R. Y. (1994). Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. Princeton: Princeton University Press.
Streeten, P. (2002). Reflections on Social and Antisocial Capital. Journal of Human Development, 3(1), 7–22.
Trigilia, C. (1999). Capitale sociale e sviluppo locale. Stato e mercato, (3/1999).