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A che serve vietare?

Creato il 29 gennaio 2011 da Bruno Corino @CorinoBruno

Il decennio appena concluso è stato caratterizzato da tutta una serie di «ordinanze» comunali, specialmente nelle città del Nord, che hanno imposto una molteplicità di restrizioni e di divieti. Molte ordinanze stabiliscono il divieto di sdraiarsi sull’erba dei parchi pubblici, lavarsi alle fontane, fare pic-nic. Non tutte queste ordinanze sono indirizzate in modo esclusivo agli immigrati, anche se talvolta ne fanno esplicito riferimento. Cosa implicano questi divieti? Ogni regola escludente segnala ciò che bisogna “escludere” dal proprio comportamento per essere incluso in una comunità, quindi segnala qualcosa che “culturalmente” o “spontaneamente” deve essere espulso dal proprio comportamento, dal proprio habitus, ossia segnala ciò che non deve far parte delle proprie abitudini se si vuole far parte di una particolare comunità. Più i divieti, le proibizioni si moltiplicano e più si rafforza il senso di appartenenza a una data comunità, a un dato consorzio umano. Posso anche dirlo in altri termini: ogni regola segnala ciò che è disponibile in uno specifico ambito da ciò che non lo è. Se si esclude qualcosa in un determinato ambito si esclude che quel qualcosa possa essere qualcosa di disponibile per alter: vietare di servirsi di parchi pubblici vuol dire rendere quei spazi non disponibili ad essere fruiti da Alter e, implicitamente, ribadisce che sono disponibili a un non-alter. Non ha importanza se Alter, prima dell’ordinanza di divieto, usasse o non usasse quello spazio pubblico. Prima dell’ordinanza magari molti di loro neanche accedevano a quegli spazi, sebbene ne avessero la facoltà. Il problema non è sapere se quegli spazi erano o non erano frequentati da quella categoria di persone appartenenti allo status di “straniero”, il problema è come si traduce questa non-disponibilità resa possibile dall’ordinanza per il loro Sé. Attraverso questi divieti si sottrae al sé all’altrui un ambito precedentemente disponibile. Maggiori sono i divieti maggiori diventano le restrizioni. Ma l’aspetto più importante sta nel fatto che più si riduce il Sé altrui più si tende ad annullarlo come individualità e ad assimilarlo a una precisa categorizzazione imposta da chi pone le restrizioni.
Quando una comunità proibisce ai suoi membri di avere rapporti sessuali con i propri familiari, l’atto proibito deve essere “escluso” dal proprio comportamento per essere ammesso a quella comunità. I propri consanguinei fanno parte di un ambito non disponibile all’atto sessuale. Riconoscere e rispettare la non disponibilità di quell’ambito è la condizione per far parte di quella comunità. Anche quando si proibisce a qualcuno di fumare in casa propria, l’atto di non fumare deve essere escluso dal comportamento di chi entra in quella casa: come se per far parte di un ambito bisogna escludere ciò che è “estraneo” a quell’ambito. Ogni regola escludente segnala un’estraneità o una differenza: vale a dire ha la funzione di rimarcare i comportamenti o gli agenti che sono estranei a quel determinato ambito. Perciò ogni regola escludente pone una presa di distanza rispetto a ciò che è diverso dal sé di chi la pone. D’altro canto, anche dal punto di vista di chi (il bersaglio) deve rispettare la regola, quell’ambito deve essere percepito come estraneo al proprio Sé, e quindi deve rendersi consapevole che per essere ammesso in quel ambito deve assimilarsi al punto di vista di chi ha posto la regola. Detto in altri termini, la regola escludente serve ad affermare la diversità dell’altro rispetto al proprio sé. Se per ipotesi non ci fosse l’Altro, non sarebbe necessario neanche porre una regola escludente. L’appartenenza a un gruppo, a un ambito, o un’affermazione del Sé viene stabilita attraverso un processo di esclusione/espulsione. Una regola escludente può riferirsi il più delle volte a un comportamento. In tal caso l’agente può “decidere” se espellerlo o meno dai suoi comportamenti al fine di essere accettato dalla comunità. Il problema assume un aspetto diverso quando il tratto da escludere non appartiene alla sfera del comportamento, ma appartiene “fisiologicamente” allo status all’agente. Ad esempio, se per assurdo si emanasse un’ordinanza di questo genere: è vietato a tutti i cinquantenni di accedere al parco pubblico, la scelta di rispettare o non rispettare un tale divieto non dipende più dalla volontà di un agente. L’esclusione dipenderebbe da fattori che non rientrano nelle sue facoltà. Se il divieto è accompagnato da una motivazione valida, quanto meno condivisibile, allora può essere anche accettabile, ma se non ha nessuna ragione plausibile, allora si vuole si mette in atto una vera e propria “discriminazione”. Spesse volte la motivazione che accompagna un divieto o una proibizione di questo tipo fa uscire allo scoperto la rappresentazione che si ha dell’altro o, come ho detto, si tenta di farlo rientrare nella categoria a cui si crede che appartienga. Se una ordinanza vieta agli stranieri di usare i parchi pubblici per motivi di “ordine pubblico”, siamo di fronte a una regola escludente e discriminante: l’essere straniero è uno status, non è una scelta; e questo status viene descritto e percepito come un potenziale pericolo per la comunità, cioè secondo la categoria appropriata per identificarli come tali.
Naturalmente, chi vuole può declinare questo discorso ad altri ambiti... ad esempio: ai media. La categoria a cui si vuole iscrivere Alter, al quale si impongono delle censure, diventa quello del "fazioso", e, in quanto tale, ciò che dice perde di credibilità. 


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