Il primo ricordo di una manifestazione canora assolutamente fallace risale al 1983, quando il Festival si lasciò sfuggire una delle canzoni più belle e potenti del secolo, Vita spericolata di Vasco Rossi, che spettinò tutti i bouquet e i toupè della prima fila dell'Ariston. Vasco cantò la sua canzone come uno zombie invincibile, vacillante e improbabile tra tutti quei lustrini. Fu bistrattato da tutti i giornalisti e i critici e i politici. Anche la Chiesa non vide di buon occhio quel rocker salito sul palco apparentemente sbronzo (se non peggio).
Più o meno come è stato accolto e descritto quest'anno Adriano Celentano. “Ma Celentano non è andato in riviera per cantare bensì per concionare”: questa è l'appiglio – imperfetto – dei detrattori del Molleggiato. Chi pensa che non esista liason tra musica e società non conosce Sanremo e poco anche il nostro Paese. La forza del Festival sta proprio, e da sempre, nella dua docile sottomisssione ad ogni tipo di lettura, in primis quella sociologica. Lettura forzata, pretestuosa, leggera, fonte di chiacchiere non sempre improvvide. L'idea di Sanremo come vetrina del costume nazionale e perfino degli umori politici non è campata in aria. Da tempo le canzoni sono a magine. La mia speranza è che un giorno o l'altro arrivi un Vasco che sparigli le carte cantando, portando una ventata di novità che ora sta germinando altrove. Una pepita nascosta nel ghiaione del Festival. Se non quest'anno almeno il prossimo, penso.
A cosa ci serve Adriano Celentano, si chiede Maurizio Maggiani sul Secolo XIX. Poco o nulla sicuramente. Restituisce al pubblico delle chiacchiere da bar esposte con una impalcatura grammaticale e sintattica da osteria.Ma la domanda da farsi è anche a chi è servito Celentano.È servito in primis a fare pubblicità ad un quotidiano semisconosciuto come l'Avvenire, il cui sconosciuto direttore ha guadagnato ribalte insperate viste le risibili vendite in edicola.È servito anche ad obbligare i preti a parlare di Dio, dopo lunghi periodi passati a parlare di tutt'altro (calcio, psicologia, politica, architettura, vendemmie).
Non è necessario spremersi il cervello per capire Sanremo, la sua spropositata fama nazionale, la solenne dabbenaggine con la quale, puntualmente ogni anno, ci si accosta a questo allegro strazio. Il Festival è una delle classiche macchine imperfette dell'industria dello spettacolo.
Vecchie giunture cigolanti che sorreggono un patetico carrozzone di cartapesta.Tenuto insieme solamente da chilometri di cavi televisivi...