Dalle mie parti c’è un detto che si usa per identificare quelle persone che muoiono compiendo un’attività che amano tantissimo e dalla quale non riescono a prescindere per quanto essa sia pericolosa, folle, spaventevole.
“Ha fatto la morte sua” si dice.
Molti danno un’accezione negativa a questa affermazione, molti la usano in maniera spregiativa per indicare, ad esempio, il tossicodipendente che muore di overdose.
Personalmente invece ho sempre dato un valore positivo a queste parole, ho sempre ritenuto (dalla fatalista che sono) che “fare la morte sua” sia la cosa migliore che possa accadere ad una persona: morire mentre si fa quello per cui si è sempre vissuto. Crudele, sì, ma anche meraviglioso.
Simone Camilli ha fatto la morte sua: è morto narrando la guerra.
Lui era un giornalista vero, uno di quelli che da valore a questo mestiere, uno di quelli che nessuno conosce perché preferisce stare in prima linea invece che al trucco di qualche programma televisivo di terz’ordine, uno di quelli che alimenta il suo ego tuffandosi di testa nell’orrore vero non scrivendo status da 10 mila like su Facebook. Lui ci andato a braccetto con l’orrore, lo ha conosciuto e corteggiato a lungo per poterlo raccontare nelle sue sfaccettature e pazienza se questo orrore prima o poi lo ha reclamato, è il rischio che spesso si corre quando si ama davvero quello che si fa, è il prezzo da pagare per essere stato coerente fino in fondo con le proprie passioni e necessità impellenti.
Ho già sentito il coro dei “ma chi glielo ha fatto fare”, lo starnazzare degli sputasentenze da salotto, di quelli che credono nell’informazione libera e nel volontariato ma che poi pensano che Giuliana Sgrena abbia ucciso un uomo per la sua testardaggine, che Saviano sia un esibizionista e che i missionari con l’ebola siano malati perché “se la sono cercata“. Persone che passano le giornate a riempire di sdegno Pro Palestina il loro Twitter tenendo una bibita ghiacciata nell’altra mano e spesso mi viene lo sconforto, perché anche se non la penso come loro, in fondo, lo sono.
Simone Camilli invece era tutto il contrario e quindi quanto di più simile all’idea di eroe che ho nella mia testa: aveva la mia età e da oltre 10 anni raccontava la guerra. Chiamava a casa e diceva ai suoi “Sto bene, è tutto tranquillo qui” perché non sopportava l’idea che la sua famiglia si preoccupasse. Non riesco a cogliere esibizionismo o temerarietà o egoismo in quello che faceva ma solo una grande urgenza di narrare, la voglia di condividere, di rendere noto alla gente quello che succede in quei luoghi spezzati ove tutti hanno paura di andare.
Aveva paura lui? Credo di sì, ma sapeva anche che “Bisogna compiere il proprio dovere fino in fondo, costi quel che costi“, come un altro italico eroe ucciso da una bomba pure lui, non mancava mai di ripetere.
Simone il suo dovere l’ha fatto e da quel dovere è rimasto precocemente ucciso.
Non so quanti di noi avranno mai questo onore.