Fotografia di Tania Bocchino
C’è che più vado avanti e più assomiglio a quella vecchietta che si alzava la gonna davanti a i passanti e questo non va bene, intanto perché non sono una vecchietta, e poi cerché non posso indossare la gonna quando il meteo prevede tuoni e fulmini e io devo trascorrere almeno due ore e mezza al giorno sui mezzi pubblici. Ci vuole un esibizionismo di minore impegno. Il problema è che, non c’è niente da fare: non sono social.
Twitter, twitter per esempio, a me fa morire dal ridere. A Ilaria no, lei ne dice peste e corna e poi usa – ne fa un uso improprio ma è grande in questo- come fossero tuittate i (come si chiamano?) messaggi di facebook. Ecco, quello è un altro esempio. A parte la sorpresa di scoprire ancora in vita e ben pasciute persone delle quali avevo perso le tracce più di venti, trent’anni fa, e buon per loro. Certo che esordire dicendo “finalmente ti ho trovata!” non depone bene sul loro stato di salute mentale. Mah, comunque, a parte questo, niente, io con facebook non ho alcun feeling. Divertente la chat, ma allora ce ne sono altre, meno invasive della privacy, leggi che non devo farmi per forza individuare da chiunque passi per caso e offenderlo pure se stacco subiro, conosco passatempi più divertenti delle chat.
Non sono social in rete perché non lo sono nella vita. C’è un mucchietto di gente bella e cara nella mia vita, ma non mi ci dilungo in chiacchiere, non è nel mio dna. E poi, quando devo perdere almeno due ore e mezzo al giorno in trasporti, nove al lavoro, un altro paio in faccende domestiche, mi dici dove lo trovo il tempo (e la voglia) di chiacchierare?
Il blog. Ah, sì, c’è il blog. E quella è un’altra cosa. E’ come un figlio nato storto, mica lo puoi abbandonare, o sopprimere. Mi si può dire di tutto, ma non che sia una madre snaturata.
Eh, beh. Non chiacchiero neanche nel blog, è un dato di fatto. Lo sto facendo ora? Parlo con me stessa. Anzi, sono le 23.29 sul mio portatilino. Mi sa che sto dormendo e questo è un flusso di coscienza. Esperimenti di scrittura automatica, come quelli dei medium che parlano coi fantasmi.
Entro quindi in un sogno, un altro, il sogno doppio rispetto a questo del flusso di coscienza. Sono una donna. Meno male, almeno quello, visto che di solito sogno in maniera veritiera e sconvolgente. In questo sogno non vedo l’ora di smettere di scrivere per andare a dormire. ma sono abituata a scrivere di notte, tanto che di quando in quando bacio la tastiera e lo schermo per la buonanotte. Bello questo sogno: caro, mio indispensabile, come ogni sera, anche quando non te lo dico, buonanotte e sogni d’oro. Chiudo gli occhi e scivolo nella terza scena. Nella terza persona, anzi, perché è un racconto in terza persona per la precisione. Indosso altri panni, gioco alla sconosciuta.
Per quanto dritta, la striscia bianca che mi cammina a fianco non possiede la qualità di un corpo solido. In altre parole, non mi attira il suo campo gravitazionale. Sono le leggi della fisica che lo dicono, e io lo confermo, lezione dopo lezione, ai miei studenti: è tutta una questione di massa. La massa grande attrae sempre quella più piccola. E lei, a sua volta, in modo spesso neanche percettibile, attrae la grande. Stavolta no. Quel segno è bidimensionale, e neanche se in lei ardesse la scintilla di una qualche miracolosa volontà, e se miracolosamente intendesse esercitarla, potrebbe mantenere allineata a sé la mia traiettoria. Nemmeno se fosse dotato di una sua corporeità. Ché, in quel caso, potrebbe al massimo farmi rallentare, o trattenermi, non certo guidarmi nell’avanzare in parallelo a lei. Se fosse panna soffice montata, per esempio, non otterrebbe altro che il mio inginocchiarmi in terra, vinta dal desiderio di nutrirmi. E, certo, ai passanti fornirebbe un argomento di conversazione (“Questa la devi sentire: per strada c’era una pazza chinata a leccare ingordamente la striscia dipinta sull’asfalto, affianco alla carreggiata dove scorrevano le macchine. Hanno dovuto chiamare la neuro, poveraccia”). Per quanto affamata, io, invece, non sono in grado di fermare il passo. Che ondeggia, sbanda, si fa lento, e poi riprende a marce serrate, sotto questo sole implacabile di metà luglio. Io devo, devo, devo, inesorabilmente, raggiungere la meta. Mi appoggio al cofano di un’auto parcheggiata, la sede del Magnifico Rettore è qua vicino. Forse ho fatto una sciocchezza a non chiamare un taxi, mi sono fidata di una superficiale conoscenza di Milano. Avrei dovuto, colpa della fretta. Ieri sera, dopo la telefonata, ho chiuso quattro cose in un bauletto e ho preso il primo treno. Sono arrivata dopo mezzanotte, e alla stazione non ho perso tempo. Giunta al piazzale, ho puntato subito all’albergo. Mi sono fatta consegnare la chiave e ho preso l’ascensore. Da quando ho lasciato Roma il cuore non ha smesso un attimo di battere all’impazzata. Mi sono vista nello specchio mentre il display enumerava i piani. Avevo un’aria orribile, era deciso: sarei andata immediatamente a letto. E invece, due ore dopo ancora, fissavo la lucina rossa intermittente sul soffitto. Passavo e ripassavo quello che avrei dovuto dire con convinzione al Professor Carrier. Quella docenza valeva tutta la mia carriera, non avrei fatto altro che un’ottima impressione. Non mi pesava di non aver mangiato dal pranzo del giorno precedente. Lo stomaco si era chiuso come per un appuntamento con un innamorato. E, in fondo in fondo, qualcosa di vero c’era, visto che a Milano avrei potuto vivere la vita che aspettavo da anni, quella con l’uomo che mi ha giurato eterna fedeltà. Carrier, all’apparecchio, aveva sentenziato: “Ora o mai più”, e da quel momento in poi, il tempo si è avvolto a me come un elastico stretto. Sul letto sono rimasta vestita tutta la notte, col cuore in gola, lo stomaco ridotto a un gomitolo di filo, e neanche l’ombra del sonno a visitarmi. Adesso che ho raggiunto quasi il portone, vedo tutto annebbiato. Che sia per colpa di Milano? Ma no. È luglio, sono le nove del mattino e il sole splende come non l’ho visto mai, da queste parti. Accidenti. Per mettere a fuoco la targa in ottone con la scritta, ci impiego due minuti. Poi guardo l’ora: sono in tempo solo se faccio le scale a due a due. Galoppo verso l’alto, sospinta da una folata che mi insegue dal portone aperto. Suono, mi aprono, mi presento. Mi dicono di aspettare. La sala d’attesa è in ombra, ci impiego un po’ a recuperare la vista. Ci sono delle sedie, e un divanetto. Un ficus sghembo e floscio, due stampe moderne ai muri. Sento il sudore cristallizzarsi sopra la schiena: in alto un condizionatore spara aria gelata sul mio completo di lino tutto sbracciato. È a questo punto che avverto il primo spasmo. È ancora gestibile, mi lascio ricadere su una seggiolina. Passi frenetici. Si approssimano scalpicciando a due a due. Prima i tacchetti della segretaria, la tizia che non ho nemmeno guardato in faccia entrando. Dietro di lei, un tumultuoso e sguaiato ritmo maschile. Dal suono direi un uomo sui novanta chili. Si apre la porta. La faccia è quella di un giovane scoiattolo, sembra uno a cui non siano ancora cresciuti i primi peli. Di chili ne peserà una sessantina, povero lui. Alto due metri, mi sembra che non mangi molto. Mangiare. Quant’è che non ci penso. Mi porge la mano: “Carrier”, mi dice. Io, in tutta risposta, mi slargo in un sorriso e esplodo, dallo stomaco, in un boato ritorto e zigrintato, pieno di anse secondarie ed echi, e gorgoglii. Tanto forte da coprire il suono della mia presentazione. Così ostinato, da vincere la volontà dei presenti di soprassedere. Talmente corporeo, da vincere la forza di gravità e costringermi a piegarmi su me stessa, per poi cadere in terra senza sensi.
Riprendo i sensi in treno, il mio sogno tipico, sul tragitto succede sempre di tutto: incidenti, sparatorie, invasioni di alieni, perdite di coincidenze. Uffa. Cambio, oplà. Il quarto sogno fascia il terzo di mani e gambe calde e uh… Non è per voi, pubblico del blog.
Tesoro mio. Il sesto sogno è su di te. Io sono nuda dalla scena precedente e lo sono solo perché ho davanti te. Tu sei un roveto grondante more appetitose. Ma more ancora così acerbe, da farmi desistere dal volerle cogliere, e poi tu appari così ostile, con la tua barriera di spine aguzze addosso. Non ho il coraggio di avvicinarmi.
Oltretutto ormai sono sveglia, non sarò così pazza da graffiarmi inutilmente. Ora devo alzarmi, mi dispiace non poter restare. Ho davanti a me una traversata in pantaloni e stivali sotto la pioggia.