La Turchia è un mosaico di culture, etnie, religioni diverse, e di civiltà antiche e presenti. Sembra quindi ironico che è qui in Turchia che tutti sono costretti all’interno di un modello omogeneo; è qui che persone con diversi punti di vista sono state ridotte al silenzio; qui che persone che si battono per il loro patrimonio culturale e per i diritti umani vengono calpestate. Negare a qualsiasi popolo la propria appartenenza culturale e la propria lingua è l’opposto della democrazia e del comportamento civile.
Lavorando per difendere i diritti umani, abbiamo spesso ascoltato persone bisognose di aiuto, senza discriminarle in ragione dell’origine etnica; abbiamo sempre cercato di trovare soluzioni ai problemi individuali di ogni persona e sollievo per le loro sofferenze specifiche. Il nostro ‘crimine’ consiste nell’esaminare scrupolosamente l’operato delle forze di sicurezza nel paese; abbiamo documentato il loro lavoro e inviato rapporti su questo al regime. Noi crediamo fortemente che i diritti umani siano la pietra angolare di ogni nazione democratica. Regimi che non rispettano la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, o che non fanno onore alle sue richieste, non hanno legittimità ai nostri occhi.
La nostra organizzazione ha sostenuto attivamente le iniziative positive dell’attuale governo verso quella che è stata definita “l’apertura democratica” della Turchia, che mirava a porre fine allo status quo, alla fine del predominio dei militare nella società, e alla persistente intromissione dei militari nello sviluppo della società.
Tuttavia, invece di un’apertura verso la democrazia abbiamo dovuto sperimentare l’arresto di 2500 politici, giornalisti, osservatori dei diritti umani, avvocati, sindaci, e funzionari comunali e regionali di alto livello. In breve, proprio le persone che stavano sostenendo la causa dei diritti umani e della democrazia sono state arrestate.
Devo ammettere, ciononostante, che l’esperienza della detenzione e il mio tempo trascorso in carcere hanno avuto anche alcuni effetti collaterali positivi. Qui ho avuto l’opportunità di dedicarmi a una revisione interiore della mia vita, di ascoltare la mia voce interiore, e di pensare e riflettere su alcune questioni urgenti. Ho avuto tempo di leggere molto. Ho completato una seconda raccolta di brevi racconti. Vi è anche una storia nella mia testa, che risale al 1938 quando alcuni gruppi di turchi “etnici” sono stati trasferiti dalla Jugoslavia a Diyarbakır al fine di rendere possibile una ‘assimilazione’ del popolo curdo. Questa storia sta diventando un romanzo epistolare ambientato nella ex-Jugoslavia e a Diyarbakır nel 1986; è una storia d’amore tra una donna turca della Jugoslavia e un uomo curdo di Diyarbakır. Durante la guerra civile in Jugoslavia si perdono di vista e solo per caso si incontrano di nuovo a Londra nel 2008.
Alla mia scarcerazione spero di riuscire a finire il mio romanzo. Ma sarà stato scritto principalmente in prigione, in una cella di 25 metri quadri che condivido con altri tre prigionieri. Oltre il muro ci raggiungono i suoni di macchine da costruzione che lavorano su una strada e l’abbaiare di cani di un villaggio vicino. Dall’interno sentiamo i fischi acuti delle guardie militari nella loro torre alta quando mantengono i loro occhi vigili su di noi. Di notte si sente il fischio dei gufi. Ci raggiunge anche il debole cinguettio di pappagallini nella cella vicina e il gorgoglio dell’acqua corrente nelle tubazioni.
Nelle parole del poeta: la notte giunge presto in carcere anche se sei un drago. Mi tengo occupato durante il giorno, faccio qualche esercizio fisico, e un po’ di ginnastica in cortile. Contemplo le erbacce che crescono nelle le fessure nel cemento da semi portati qui dal vento. Per ammazzare il tempo fisso il cielo. Ma di notte il buio diventa ancora un’altra prigione all’interno della prigione. La solitudine avvolge le persone sole. Attraverso la finestra guardo le stelle e gli aerei passano; la mia fantasia vola a immaginare liberamente sui passeggeri.
Di notte rifletto sul fatto che sono anche un marito e padre, il che mi fa inevitabilmente venire voglia di piangere. Ma perdere la speranza è anche peggio della morte. Per un genitore la prigione è una pena doppia. Non sei altro che un detenuto agli occhi della società, la tua casa, tua moglie e i tuoi figli. Come se non bastasse, di notte ci si ritrova ad affrontare il proprio destino da soli – ad affrontare disperazione e impotenza – da soli. Le quattro pareti diventano una buca perennemente profonda. E’ un vero inferno.
Tutto perché ho osato mettere i miei pensieri in parole, o, come ha detto una volta mio figlio Robin di nove anni: “Perché ho aiutato la gente”, io sono ormai prigioniero da diciannove mesi. Non mi resta nulla da fare se non soffrire queste condizioni terribili e ad aspettare all’infinito perchè trionfi la giustizia. Sono comunque un ottimista. Il popolo curdo vuole solo poter usare la propria lingua, rendere visibile la propria cultura nella società, essere riconosciuto nei propri diritti, e avere l’opportunità di prendere parte al governo del paese.
Nella nostra difesa dei diritti umani siamo sempre stati contro l’uso della violenza. Abbiamo sempre voluto risolvere i problemi pacificamente con mezzi democratici. Continuerò a ripetere con insistenza questo in futuro e durante il mio processo in qualsiasi momento si terrà. Credo nella pace, nella tolleranza, nella scrittura, e nel mondo magico delle parole. Ho parole di ringraziamento per avermi aiutato a superare il mio senso di impotenza. Tutte le cartoline e le lettere che ricevo da tutti i quattro angoli del mondo e da PEN America e Svezia mi danno forza e coraggio.
Non si può negare che ho usato la mia mente e la mia penna nella lotta pacifica per i diritti umani e per il rispetto universale della dignità umana. Mi sento molto onorato se sono riuscito a cambiare almeno qualche piccola cosa o influenzare almeno qualcuno. La vita non dovrebbe imprigionare il nostro pensiero, ma essere come una foresta che ci nutre e che ci alimenta