A sentire mio figlio i papà servono a due cose:
- a fare la pasta
- a raccontare le storie.
È bello ma è anche il corroborarsi di una situazione epocale di fragilità che non è di ruoli ma squisitamente economica. In casa nostra quella in carriera è lei. Io viaggio solo a ruota.
Ho fatto questa domanda ieri sera a Samu, così per sentire un po' che cosa volesse da me e come mi percepisse, dovendo dire a Unsanullino che cosa siano i papà.
In tutta sincerità pensavo che mi avrebbe detto qualcosa di virile, tipo litigare al volante, esplorare strade ignote nei boschi, sollevare le cose pesanti ecc... Invece l'immagine che mi restituisce è un po' diversa, o meglio, molto più reale delle mie raffigurazioni mentali.
Sono per lui quello che cucina (da sempre mi rimprovera di cucinare, pure troppo) ma anche quello che lo prende per mano e lo porta a esplorare i boschi, soprattutto quelli della fantasia. Mi chiede in continuazione di inventare storie, come se mi usasse per toccare la sua stessa fantasia. Quando io invento ho spesso l'impressione di essere lui che inventa e io fungo da semplice medium.
Se mi pongo la domanda "A cosa servono i papà?" salgono alla mente alcuni scenari:
- la fantasia femminile del "possiamo fare tutto da sole" (rielaborazione in chiave yuppie del dibattito femminista) fantasia strisciante negli anni Ottanta
- la ricorrente narrazione contemporanea sulla mancanza del ruolo del padre
- la vecchia narrazione del padre-padrone
- la fobia "chiesarotta" sul pericolo della confusione dei ruoli
La risposta più corretta è che non serve a niente. È fatale (e anche palmare) che al centro ci sia la madre (o forse no...). Il padre, secondo diversi orientamenti psicologici, è una figura necessaria perché consente il processo di distacco dalla madre e di acquisizione delle prospettive di autonomia dall'unicum mater-puer. Si tratta di una funzione che può essere svolta da qualsiasi persona, maschio o femmina che sia. In pratica è buona cosa che esista una figura alternativa a quella principale (che a questo punto può anche non essere la madre stessa) grazie a cui strutturare una propria identità in separazione. L'ideale, in sintesi, è poter crescere con due figure di riferimento, una materna e una paterna, l'ideale (ma non necessario) è che la prima sia incarnata dalla mamma e la seconda dal papà.
Su quali siano i connotati esatti della maternità e della paternità si dibatte da una vita e la percezione condivisa dei due aspetti varia al mutare delle epoche, delle esperienze personali, della cultura di riferimento. È possibile andare oltre la biologia per definire con oggettività ciò che è paterno e ciò che è materno? Secondo me sì - almeno in parte - e almeno in parte quanto appena detto sul distacco risponde già alla domanda.
Approcci come quello alla Risé ("Il buon papà non è il mammo, che si limita a scimmiottare la mamma. Il padre certamente dona se stesso al bambino, ma in modo diverso dalla madre. Lui dona la sua esperienza di vita e indirizza i comportamenti del figlio. Per farlo, gli è richiesta soprattutto una buona coerenza nei principi e nei comportamenti [...] La mancanza di un ruolo guida, di un punto di riferimento forte che insegni lo spirito di sacrificio e il senso di responsabilità è un fattore negativo. Che può causare ai figli problemi di vario tipo, dalla droga ad altre forme di devianza") mi convincono poco, personalmente ci leggo qualcosa di vagamente troppo ideologico, un po' destrorso, un po' rigido, una venatura un tintinello fascistoidale.
Uno sguardo alla Recalcati (Il complesso di Telemaco) risulta più affascinante, profondo, pur con alcuni schemi potenzialmente comuni all'ottica di Risé. Recalcati voca al padre un ruolo di "legge simbolica" ma analizza in modo assolutamente suggestivo i sensi del figlio: gli occhi e il suo bisogno di parole.
Escludendo il richiamo freudiano al padre primordiale, pur se ricco di valore, escludendo le derive stile "la paternità è un ruolo inventato", per comprendere meglio chi si è credo che il contributo (finisco sempre per incensarla, questa donna) più lucido e comprensibile l'abbia dato Anna Oliverio Ferraris con "Padri alla riscossa".
Penso però che il miglior modo di comprendere sia guardarsi all'interno: io chi/cosa sono?
(Ah: non dimentichiamo poi che i papà servono anche ai papà perché esser padre è meraviglioso!)
Nella mia esperienza io sono quello che sa far rispettare le regole soprattutto perché ha una voce profonda e perentoria (Paola strilla ma è troppo stridula per essere autorevole), sono quello che sbaglia a fare le cose e magari chiede scusa, sono quello che ama i colori, sono quello che cucina e che pulisce i pavimenti, sono quello della fantasia, sono quello delle esperienze, sono quello delle parole, sono quello degli animali, sono quello che spinge a uscire, sono quello del movimento, quello che non dorme, quello che ama il mistero. Paola è quella che chiede amore, è quella che si ferma, è quella che gioca, è quella che stimola a fare meglio, è quella che colloca nel mondo, è quella delle relazioni con gli altri, è quella delle sorprese, è quella del sonno, è quella che ama le certezze, è quella seria, è quella affidabile, è quella che prepara i dolci, è quella che deroga, è quella equilibrata.
Ecco, dopo tante letture, dopo tante speculazioni (anche tante seghe mentali), tornare alle parole che mi descrivono "pasta e storie", mi aiuta a trovare una vera dimensione che è responsabilità: sono una delle sue guide.
Come erede di una genìa il cui ruolo fu solamente riproduttivo e protettivo, non vorrei arrogarmi un ruolo eccessivamente pretenzioso...