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A Dangerous Method

Creato il 21 febbraio 2012 da Af68 @AntonioFalcone1

A Dangerous MethodNon stupitevi di vedere solo ora su questo blog una mia analisi di A Dangerous Method, l’ultimo film di David Cronenberg presentato in concorso alla 68esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e che ha avuto modo di far discutere pubblico e critica: purtroppo nella mia zona di residenza, in provincia di Reggio Calabria, la distribuzione punta essenzialmente, con qualche lodevole eccezione, su pochi titoli ritenuti “affidabili” relativamente agli incassi, spesso riproposti dai tre cinema esistenti in tre comuni limitrofi, ulteriore crimine, a poche settimane di distanza l’uno dall’altro; per chi, come me, è ancora legato al concetto di sala cinematografica come “luogo di culto” per godere appieno della visione di un film, pur già disponibile in dvd, non resta che affidarsi a qualche recupero in apposite rassegne d’essai, com’ è avvenuto, appunto, per la pellicola in questione.
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Tratto dalla piece teatrale The Talking Cure di Cristopher Hampton (autore della sceneggiatura), a sua volta ispirata al romanzo A Most Dangerous Method di John Kerr, A Dangerous Method è un film la cui visione mi ha lasciato inizialmente non poco interdetto, sorpreso dalla compostezza e dalla rigorosa prudenza nel centellinare le varie vicende sullo schermo, con un distacco dai personaggi forse eccessivo, almeno nell’ambito di un regista che, soprattutto in una prima fase della sua carriera, ha giocato le sue carte migliori in un ambito estremamente opposto, tra visionarietà e devastazione corporale.

Apprezzandone l’estrema raffinatezza di proposizione, ottima ricostruzione storica, bella fotografia, macchina da presa “ferma” ma ben attenta ai dettagli e ai primi piani, alla fine si è sviluppata in me la convinzione che Cronenberg abbia voluto enfatizzare la cosiddetta “cura delle parole”, ovvero la psicoanalisi, giocando sui dialoghi e sulla parola scritta (il frequente carteggio tra Jung e Freud) per dar vita ad una sorta di sospensione simbiotica imperniata sul contrasto tra quanto l’ambiente sociale impone (la vicenda prende piede nel 1904 tra Zurigo e Vienna) e ciò che la mente prima e il corpo dopo vorrebbero, anche se non sempre con identica e simultanea espressione, anzi spesso in mancata sintonia.

Ecco perché piuttosto che la triangolazione messa in atto tra Sabina Spielrein (Keira Knightley), Jung (Michael Fassbender) e Freud (Viggo Mortessen), all’origine, nell’ordine, di un rapporto conflittuale paziente-medico e discepolo-maestro, con la donna a fare da baricentro pulsante, mi hanno invece colpito due personaggi in apparenza secondari, ma più che mai atti ad insinuare differenti pulsioni sotto pelle: Otto Gross (Vincent Cassel) e il suo libertinaggio al di fuori di ogni convenzione, sociale e morale, e la moglie di Jung, Emma (Sarah Godon), non a caso al centro di una delle scene più affascinanti, il test delle assonanze messo in atto con l’ausilio di un inedito macchinario.

Più che le tre diverse teorie delineate dai tre personaggi, semplificando, sesso come cardine dell’universo teorizzato da Freud, “il qualcosa in più” ricercato da Jung, il legame Eros- Thanatos portato avanti dalla Spielrein, che diverrà anch’essa psichiatra, alla fine ciò che emerge è la fragilità dell’essere umano, soffocato dall’apparato sociale in cui vive, tanto simile al sepolcro imbiancato d’evangelica memoria: solo, senza più alcuna certezza che non sia la consapevolezza della fragilità del suo essere, della sua scarsa influenza e conseguente soggezione all’ ineluttabilità degli eventi.
Lo si evince dal bellissimo finale, classico colpo d’ala sodenberghiano, per un film che avrebbe meritato, a mio avviso, un’interprete femminile meno rigidamente concentrata su isterismi d’ordinanza, specie nella prima parte, e un Freud- Mortessen meno ieraticamente compresso.


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