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A forza di Jobs

Creato il 01 febbraio 2016 da Albertocapece

Steve-JobsSappiamo tutti che l’informatica è nel bene e nel male la vera rivoluzione tecnologica a cavallo tra il XX° e il XXI° secolo, sappiamo che essa è stata possibile grazie all’ingegno e alla capacità di migliaia di persone che sono riuscite a trasformare la pascalina in computer e gli automi in robot. Matematici, fisici, chimici, filosofi, programmatori sono riusciti in una sorta di inatteso miracolo, ma disgraziatamente, come segno dei tempi cui manca un supplemento d’anima per governare le trasformazioni,  gli unici nomi noti al grande pubblico non sono che i due o tre miliardari che hanno saputo trasformare a loro vantaggio queste trasformazioni e anzi le arti popolari ovvero il cinema e la televisione non ne celebrano che due, il creatore di Fb che notoriamente ha copiato l’idea dai suoi amici, fregandoli e un commerciale puro come Steve Jobs che altrettanto notoriamente non ha mai scritto una riga di codice.

Ciò che affascina è solo e soltanto il denaro: lo testimonia Il film che adesso è nelle sale e che è stato tratto da una sorta di reticente autobiografia del più conosciuto fondatore della Apple dalla quale vengono espunti tutti i temi salienti della nascita dell’informatica personale. E di certo nessuno osa dire che l’idea del “profeta” Jobs, rimasto sempre e intimamente un manager con sogni a forma di S barrata, era quella di una produzione chiusa ed elitaria che, se fosse prevalsa, avrebbe di molto frenato la diffusione del personal computer relegandolo agli usi strettamente professionali: ciò che gli interessava era la redditività e per questo il nome di Jobs non compare  affatto fra i creatori del sistema operativo Macintosh (dal nome di una varietà di mele)  che equipaggerà i primi Apple, mentre pare sia stata sua l’idea di acquistare direttamente dalla Xerox l’interfaccia grafica e il mouse che decretarono il successo delle prime macchine marchiate con la mela morsicata. Un buon colpo che tuttavia fu lui stesso a vanificare, operando in modo da marginalizzare la marca durante la crescita abnorme ed esponenziale del settore: non appena si creò attorno al Mac  un fiorente mercato di cloni, estensioni e di schede compatibili, Jobs scatenò gli avvocati per chiudere subito questa falla. I legali riuscirono a convincere i giudici che era illegale persino la semplice copia del sistema di input- output (vale a dire il bios) e una volta stabilito questo tutto il mercato che gravitava attorno alla marca deperì velocemente.

Ciò non accade affatto nel mondo Ibm (anche a causa di errori dell’azienda) nel cui ambito fiorì un numero enorme di componenti compatibili, di programmi applicativi e di sistemi operativi alternativi, tra cui alla fine la spuntò Microsoft (al tempo nota come produttrice di linguaggi macchina, il Basic in particolare) con il Dos, comprato a sua volta da un’azienda di Seattle. Tutto questo significò nella pratica un continuo abbassamento dei prezzi che relegarono Apple in una delicata biosfera tenuta in vita grazie a massicci investimenti pubblicitari indiretti (ancora oggi il 90% dei personal che si vedono al cinema sono Mac quando nella realtà sono tra il il 10 e il 12 per cento). Per questo alla fine Jobs, già ricco a causa degli aumenti azionari della marchio che arrivarono a circa 250 volte il fatturato dell’azienda, venne contestato ed emarginato al punto da costringerlo alle dimissioni.

Una volta fuori fondò la Next con l’intento di creare una rivoluzione tecnologica, servendosi però della solita tattica di acquistare qui e la tecnologie già prodotte, un clone Unix come sistema operativo e memorie ottiche al posto di quelle magnetiche: fu un fallimento totale. Ma Jobs con la tecnologia in sé aveva poca confidenza ed invece aveva una spiccata capacità commerciale: capì che l’informatica avrebbe rivoluzionato i tempi e i costi del cinema di animazione e comprò per pochi soldi la Pixar che dopo dieci anni sfondò con Toys Story. Nel frattempo la Apple era a mala pena sopravvissuta anche grazie all’intervento di Washington che  vedeva come fumo negli occhi la vendita del marchio ai giapponesi della Sony  e che a metà degli anni 90, fece in modo di far saltare trattative avviate già da tempo, inoltre si trovava a dover affrontare l’inevitabile ossia l’obsolescenza del sistema Macintosh giunto ormai ai suoi limiti di sviluppo, nonostante le altissime preci dei suoi fans, cercando qualcosa da acquistare in giro, si imbattè nella Next che almeno offriva un onesto clone Unix, costruito sull’esperienza Bsd il cui core è in realtà sotto licenza Open Source con il nome di Darwin, sebbene sia venduto a caro prezzo nelle macchine della mela. E dio solo sa perché sulle distribuzioni Linux gratuite non sia ancora possibile montare applicativi professionali.

Così Jobs nel ’97 torna alla Apple, prepara l’uscita del nuovo sistema operativo OsX,  si accorda con Microsoft perché quest’ultima renda disponibili sul nuovo sistema la suite Office (Word ed Excel in particolare), licenzia 3000 dipendenti, si fa regalare un jet executive da 90 milioni e una fetta di azioni pari a 30 milioni, lancia sul mercato una serie di macchine gadget per fighetti, ancora dotate del languente sistema Macintosh, inaugura la strategia dei negozi Apple, quelli davanti ai quali far comparire le file di fanatici adoratori, autentici o a pagamento, che non chiedono altro che comprare i costosissimi prodotti del marchio. In effetti Jobs trasforma una grande azienda di informatica in una sorta di bazar del gadget e della vendita, mette in piedi ITunes, assumendo i precedenti sviluppatori del programma e facendo un favore alle major nella loro incessante lotta contro la pirateria, poi scartabella la vecchia documentazione della trattativa di vendita con la Sony e tira fuori dal cilindro l’Iphone, anche questa una rivoluzione di mercato, più che tecnologica, resa possibile dalla disponibilità a basso costo (per via delle fabbriche lager cinesi) di processori con contenuto assorbimento di energia.

Ora nessuno  nega il fiuto di Jobs per il business, ma di certo non se ne può fare un padre dell’informatica nella quale del resto si è imbattuto quasi per caso, dopo aver abbandonato gli studi in appena sei mesi, grazie alla sua passione per i videogiochi, almeno nella versione grossolana dei primi anni ’70. Men che meno se ne può fare un mito o un profeta con la storia del famoso garage o con le banali parole d’ordine del liberismo,  niente a che vedere con i veri pionieri dell’intelligenza di silicio, tra i quali mi permetterei di inserire Mario Tchou che con l’aiuto e il sostegno di Fermi costruì assieme a pochi collaboratori negli anni ’50 a Pisa il più grande supercomputer a transistor del mondo e che forse proprio per questo morì in circostanze mai chiarite.  Ma lui non ha fatto soldi a palate e del resto per costruire lo straordinario Elea usò più o meno la stessa cifra scucita da Mike Makkula per il solo lancio dell’Apple II che aveva bisogna di una scheda aggiuntiva per poter visualizzare i caratteri minuscoli.

Ma per la creazione di un mito la quantità di denaro è ormai assolutamente necessaria: essa testimonia in assoluto del valore di una persona ed è perciò l’unico elemento percepibile da parte della massa, tutto il resto, compresa la precoce scomparsa  non  sono che materiali secondari. Certo non è colpa di Steve Jobs se da abilissimo manager è stato trasformato in profeta tecnologico: l’equivoco nasce da una cultura egemone, ma grossolana che punta tutto sul successo in termini di ricchezza e che spesso scambia innovazione e genialità con un suo banale succedaneo battezzato creatività, nient’altro che la capacità spesso incompetente di affastellare elementi per scopi estemporanei e molto apprezzato da una mentalità al limite del rincoglionimento. In effetti – se posso portare un’esperienza personale – la confusa, ma proterva incensazione di Jobs e della Apple da parte di ambienti della sinistra ciecamente portati a combattere contro il presunto “monopolio” Microsoft, è stato per me il segnale certo di una mutazione sociale e ideologica che si nascondeva dietro a facili cliché. E ad analisi cialtrone: pochissimi al di fuori del mondo informatico professionale si sono resi conto che Apple era una delle carte migliori per la casa di Redmond di fare il bello e cattivo tempo, per simulare l’esistenza di alternative, casualmente tutte dentro il mondo americano e dunque per rallentare o far smottare all’origine progetti di sistemi operativi più aggiornati e potenti rispetto ai prodotti della fase pioneristica.  Forse volevano pensare differente, che è uno slogan commerciale, ma ognuno ha i profeti che si merita.


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