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“A fronte alta, per guardarsi negli occhi”

Creato il 14 marzo 2012 da Pasquale Allegro

 Intervista ad Andrea Latelli del movimento meridionalista In piedi, a fronte alta.
“A fronte alta, per guardarsi negli occhi”di Pasquale Allegro
Credo che Foucault sarebbe stato d'accordo con me sul fatto che il campo intellettuale si misuri sulle verità che scuotono le abitudini. Entrambi disgustati da quella figura d’intellettuale assuefatta alle convenzioni - che ha risposte su tutto ciò che è già concordato - e terribilmente infastiditi dalla sua impertinenza e la sua sconsideratezza, avremmo poi disegnato insieme l'itinerario immaginario che conduce, sempre in bilico tra fede e cultura, all’identità del nostro sapere. Animare, riscoprire, risvegliare: da sotto un cumulo di rovine sarebbe emerso infine il ritratto sincero di un intellettuale che fa dell’amore per la memoria un sacrificio sociale. Alla vista dei visitatori stranieri - fanno paura questi giganti -, vestito di tutto punto come si conviene alla circostanza, questi come d’incanto avrebbe manifestato, nei capelli e in ogni cellula del suo corpo, la propria biografica appartenenza. E invece no, non andò proprio così, se tanti, tantissimi, con quello stesso abito e valigetta al seguito, lasciarono la propria terra sotto un cielo compunto di stelle e di bugie...
“Dati alla mano”, m’informa Andrea Latelli, giovane lametino laureato in filosofia con un debole per la rivisitazione storica, “quasi 26 milioni di persone sono emigrate dal Sud, lungo tutti i 150 anni che vanno dall’Unità d’Italia ad oggi. Una cifra incredibile se si pensa che, da questi dati storici dell’Istat, viene fuori che prima del 1861 il meridione non conosceva affatto il fenomeno dell’emigrazione, mentre dalle regioni del Nord, effettivamente più povere, già si emigrava. Anzi, ti dirò di più”, conclude soddisfatto, “il Sud era addirittura meta d’immigrazione straniera”.
Ma no, assolutamente non si tratta del solito neoborbonico nostalgico, la sua è “un’operazione di contestualizzazione del passato nel presente”, portata avanti con “coerenza di metodo e scrupolosità nei contenuti”. Il suo pensiero s’inerpica solido su considerazioni esegetiche: “Io non sono nostalgico”, s’inalbera, “credo soltanto che serva rileggere la storia per ricostruire la memoria, altrimenti la nostra identità frana sotto i nostri piedi”. M’impressiona a tal proposito immaginare un contesto culturale in cui non si comprende fino in fondo la propria storia; smarriti, sconosciuti a noi stessi, vaghiamo. Urge un intervento. “Riavvolgere i nastri della storia per riascoltarla e riscriverla”, questa l’operazione culturale di cui si fa promotore Latelli, e se “ancora dopo tanti anni c’è la volontà di rimuovere e cancellare” dobbiamo arrivare a mettere in discussione “questa fantomatica identità nazionale che poi di fatto si rivela fragile”.
Cosa ha cercato di nascondere, per tutto questo tempo, una certa storiografia colpevole di dare una sepoltura coatta a talune interpretazioni, per così dire, scomode? “Si possono individuare degli episodi storici precisi, delle strategie economiche, politiche e finanziarie”, mi risponde afferrato, “che hanno determinato la condizione di subalternità del Sud verso il Nord, le stesse che continuano a mantenerla”. Eppure, noi fanciulli, sfogliando distrattamente e ingenuamente pagine di Storia, accoglievamo eccitati episodi di narrata emancipazione... Uguaglianza sociale, dunque, dove stavi di casa? Mettiamo nel computo delle cose che noi, sì noi meridionali, siamo, come dire, geneticamente ininfluenti... Piede e tacco peninsulare, praticamente terra terra: “Noi nasciamo, cresciamo sui banchi di scuola già feriti nell’orgoglio, cresciamo già con delle speranze sopite, già convinti che questa condizione di subalternità sociale, culturale ed economica sia qualcosa d’innato, che ci appartiene da sempre, che ha ragioni ataviche. Ed io pongo il dubbio: ma è davvero così?”.
Sotto questa illustre egida della domanda si pone l’impegno di Andrea e del suo movimento “In piedi, a fronte alta”, ed è in questo ambito che si è dato vita ad un’iniziativa culturale che si è tenuta lo scorso 16 febbraio presso il Liceo Classico "F. Fiorentino" di Lamezia Terme. Un incontro dal tema: Educati alla minorità. Il confronto di idee, che si è avvalso della collaborazione della Casa della Legalità e della Cultura, ha corrisposto l’urgente aspirazione dello studioso di contestualizzare un passato scomodo, inserendola nella dinamica dialettica con le scuole, “perché sono questi i luoghi in cui far crescere la speranza, in cui si può seminare per raccogliere dei frutti importanti al fine di cambiare la società”.
In quell’occasione, nel parlare di educazione alla minorità è stato presentato un lungometraggio, Il Canto dei nuovi emigranti, firmato dai registi calabresi Arturo Lavorato e Felice D'Agostino, dedicato alla figura del poeta sambiasino Franco Costabile. La proiezione di un pellicola riguardante il fenomeno dell’emigrazione in generale, riletto ovviamente con particolare sensibilità lirica, è stata solo un attestato memoriale per trattare un tema attuale come è quello dell’emigrazione studentesca. Accompagnato pertanto da Paolo Bambara, un altro giovane impegnato nel movimento, Andrea Latelli illustra i risultati di un approfondito studio effettuato sul fenomeno degli studenti in fuga. Partito dal considerare come Sud le regioni facenti parte del vecchio Regno delle Due Sicilie (comprendente dunque gli attuali Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia), Latelli snocciola i seguenti dati, secondo l’ultimo rapporto del CNVSU aggiornato al mese di gennaio 2011: il numero degli studenti del Sud immatricolati al centro-Nord è di 24.182; il 25% degli studenti del Sud abbandona la propria regione; il 40% degli studenti calabresi abbandona la Calabria. “Il dato allarmante”, sottolinea, “è che non solo non si studia in Calabria, ma non si rimane proprio nel Sud; si va a studiare, cioè, da Roma in su”. E se poi andiamo a vedere quanti sono i ragazzi che partono per le università del centro-Nord, lungo un percorso di laurea che dura in media 7 anni, lo studio rivela una cifra che ammonterebbe a 145.046 studenti.
“E questo è il flusso delle risorse umane, dopodiché passiamo al flusso delle risorse economiche”. Eh, beh, a tal proposito non sono mica bruscolini - secondo fonti OCSE, Sole 24 ore, etc. – gli 11.000 euro che ogni anno in media tra spese d’iscrizione, di vitto e alloggio, di trasporti, di acquisto libri, extra, etc., si spendono, “e ci siamo voluti tenere volontariamente bassi”, puntualizza Latelli. Poi moltiplicando questi costi per gli anni del percorso medio di laurea (11.000x7) ci si ricava il costo medio di 77.000 euro che ogni studente fuori sede deve fronteggiare per raggiungere la laurea; e se ancora - lui cifre alla mano, io mal di testa da teorico compulsivo – volessimo conoscere quanto capitale si sposta ogni anno da Sud, relativamente al numero complessivo dei ragazzi che studiano al centro-Nord (145.046x11.000), constateremmo che dalle nostre saccocce prendono il volo ben 1.595.506.000 euro. “E se tu pensi”, mi dice beffardo, “che l’ultima finanziaria del governo, la cosiddetta lacrime e sangue, ammonta a 5 miliardi:..”. Sì, un bel raffronto, ogni anno quasi due miliardi di euro si spostano dal Sud verso il Nord.
Ma ancora un dato importante emerge dagli interminabili grafici che Andrea Latelli mi spiattella sotto gli occhi: nella classifica delle università italiane stilata da Censis - Repubblica, secondo criteri di valutazione che riferiscono della qualità degli Atenei e della ricerca, l’Università della Calabria di Cosenza svetterebbe al 2° posto, e sottolinea 2°. Le altre sedi universitarie sono allora oggettivamente preferibili a quelle meridionali, calabresi in primis? Ma ancora più interessante il fatto che, secondo la fonte del MIUR, l’ammontare del Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università, la principale fonte di entrata per le Università italiane, di cui avrebbe usufruito l’Unical negli anni che vanno dal 2006 al 2011, corrisponde alla metà di quello di cui ha beneficiato, per fare un esempio, l’Università di Pavia, nonostante quest’ultima annovererebbe 10.000 studenti in meno dell’ateneo calabrese. Con un’ulteriore precisazione: “Rispetto agli altri atenei, che godono dei finanziamenti di alcune fondazioni, le nostre strutture universitarie non beneficiano di altre entrate”. C’è dunque “una distribuzione iniqua dei fondi di finanziamento”, denuncia Latelli, “e mi chiedo: se noi meridionali, come ci accusano, pecchiamo di ritardo strutturale, allora buon senso consiglia che si favorisca una fase di recupero o per lo meno che questi finanziamenti vengano distribuiti equamente”. Cosenza è seconda, nonostante abbia finanziamenti in meno. Cosenza è seconda, nonostante abbia in media un numero elevato di iscritti. E allora dove sta il gap?
L’iniziativa “Educati alla minorità” si prefiggeva proprio “il compito di sdoganare una dinamica psicologica: una cosa è la percezione della qualità, un’altra la qualità reale. Il grande lavoro culturale che bisogna fare deve proprio andare in questa direzione”. In un sussulto di protervia culturale, suvvia per darmi un tono, gli ricordo che infatti etimologicamente “educare” significa condurre fuori. Quando infatti, Latelli, alla fine dello studio chiede ai ragazzi in sala il motivo per cui la maggior parte dei diplomati si reca a studiare al Nord, puntualmente si sente rispondere che probabilmente lì offrono sevizi migliori. Con la medesima puntualità, arriva il commento dello studioso: “Questo è ormai il nostro modo naturale di vederci. Noi stessi siamo così abituati che siamo i primi a svalutarci, a non dare il giusto valore a quelle che sono delle realtà effettivamente positive del nostro territorio”.
E qui terminiamo ogni riferimento alla validissima iniziativa del Classico, per ricollegarci alla nostra chiacchierata. “Io voglio dimostrare che è un’indotta subalternità che s’iscrive in un contesto più generale, storico”, mi confida così il leitmotiv del suo esperimento. Da onesto e diligente cultore qual è, riferisce dunque di uno studio pubblicato da Vittorio Daniele, professore all’Università Magna Graecia di Catanzaro, e da Paolo Malanima, professore di Storia Economica, un’analisi che ci fa tornare indietro fino all’Unità d’Italia; periodo in cui “fondamentalmente ti dicono, dati alla mano, che all’indomani dell’Unità, cioè dal 1861 in poi, il divario economico tra Nord e Sud non c’era, e te lo dimostrano riportando il PIL di tutte le regioni”.
Cita fonti storiche per non essere accusato di approntarsi superficialmente alla materia. Su di giri, infervorato da una querelle che non vuole assolutamente cedere ai tentativi di revisionismo, mi parla del contributo importante che a tal proposito ha fornito il noto economista liberale Vito Tanzi: “Cavour portò il Piemonte ad avere un debito pubblico di 2.000 milioni d lire, una cifra raccapricciante per l’epoca. Per scongiurare un’inevitabile bancarotta, dunque, ingegnò l’invasione del Sud”. Secondo questo punto di vista, “quella piemontese non è stata che un’opera di colonizzazione per il controllo del Mediterraneo. Il Regno delle Due Sicilie possedeva infatti un’importante flotta. E, si badi bene”, continua, “il fenomeno s’iscrive in uno scenario internazionale in cui avvengono grandi colonizzazioni. Tutti i paesi del centro nord Europa, infatti, stavano colonizzando paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America...”. Al di là delle solite tiritere tra mazziniani e garibaldini, è “lo scenario economico dunque che detta quell’operazione”. La moneta decide. In quell’immenso Monopoli della Storia, le banconote sostengono la retorica dei mille uomini contro tutti, mentre i comandanti e i generali tradiscono con più facilità di quanto si possa creare un mito. Il confine tra la leggenda e la realtà è così labile che quasi quasi si assiste ad un imbarazzante commiato della ragione. 
Andrea Latelli è un fiume in piena: “Questo processo di depauperamento delle nostre risorse ha portato a delle conseguenze economiche, sociali e culturali... ha distrutto un’identità!”. Riflessione che, fatta da chi nella tesi di laurea ha approfondito il rapporto tra alterità e identità, ha tutto il sapore di una sentenza definitiva. “Anche la grande emigrazione”, spiega, “era funzionale a quella strategia... Al Nord arrivava forza lavoro che per quelle regioni non costituiva alcun costo, perché non era stata formata da loro. Costabile scrive “le nostre giacche nei pollai d’Europa...”. In più quella forza lavoro non era che manodopera a basso costo e di conseguenza i salari venivano bloccati. Non si faceva nulla per far rimanere la gente al Sud, perché una regione sottosviluppata doveva rimanere tale per poter invitare subdolamente i suoi lavoratori a partire per alimentare altre economie”.
È dunque un sistema globale ed economico atto alla gestione del potere. Le maglie strette, strettissime, di una rete infinitesimale di dominio, soffocano le economie di quei paesi inopinatamente condannati alla mera sussistenza: “Cos’è l’assistenzialismo se non un modo ambiguo di dare il sostentamento necessario a che l’individuo non si trasformi in un rivoltoso, a che possa continuare ad essere un consumatore e, la cosa più importante, a che non possa superare i confini oltre il quale si crea sviluppo?”
A questo punto Latelli indica la strada da percorrere: “Un processo di decolonizzazione, è questa la risposta. Una decostruzione di quella opera di colonizzazione, insieme alla volontà di riappropriarsi del territorio, della mentalità giusta, dell’identità vera, della profonda emancipazione”. Attraversando le stanze immense dei pensieri, penso tra me e me: ma non è che questo brillante giovane mi fonda un partitino, di quelli tipo Meridioneenonsolo? Ma... è consolante: “Niente conquista del palazzo, si deve puntare su un discorso di responsabilità personale, di presenza e di impegno sul territorio, favorendo le sue vocazioni naturali, le sue ricchezze e la sua storia. Bisogna oltrepassare la modalità di fare politica che è funzionale a quel sistema di potere. Bisogna ripensare la politica, smettendola di delegare i partiti a livello nazionale”. Quasi un eversivo del concetto e della comunicazione. Un linguaggio nuovo, dice. Parole che si fanno e si disfanno per richiamare la propria storia con un nome nuovo.
E poi si accende in volto di una luce quasi apologetica, non direi idealista, no, perché è evidente che il gioco si fa duro e lo scenario è oggi, qui e ora: “Faccio un appello ai giovani”, sbotta in un impeto gravido di messaggi, “soprattutto ai giovani laureati che dovrebbero disporre degli strumenti atti a comprendere e interpretare la realtà ed eventualmente a modificarla. Noi abbiamo una doppia responsabilità rispetto agli altri. Dobbiamo rimanere perché il futuro siamo noi. A volte, a chi va via per una realizzazione personale, infischiandosene della comunità, conviene pure pensare che noi meridionali siamo condannati naturalmente a essere subalterni... Sono grandi alibi, non bisogna sfuggire alla proprie responsabilità, che sono anche quelle collettive”.
In piedi, a fronte alta, è il nome del movimento. Consapevolezza di sé e riappropriazione dell’identità comune, sono con chiarezza i baluardi, sogni da sveglio. Costruendo a piccoli passi, la distanza sfuma e le altezze franano. “È vero, il rapporto è squilibrato tra Nord e Sud”, osserva costernato Latelli, “in un rapporto di completa reciprocità il nostro capo è piegato, in piena e totale genuflessione”.
Incurante dei pregiudizi, del sodalizio delle commemorazioni e della lunga stagione dell’oblio, accomiatandosi da me Andrea Latelli si augura di effettuare presto quella che, con malcelato orgoglio, definisce una manovra di riposizionamento: “grazie alla quale”, sospira, “io non mi sento più inferiore a te, e a fronte alta ti guardo negli occhi”.
Non ho fatto molto caso a quelle parole, perché la gran parte dei sognatori si lasciano strappare una promessa. La colpa è nella maledizione del portamento.
da "Il Lametino", 25 febbraio 2012

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