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Dopo le esperienze non certo facilmente digeribili di Crash e Videodrome, per approfondire la filmografia di Cronenberg ho deciso di lasciare perdere -almeno per il momento- la sua ossessione per la mutazione della carne.
Cicatrici, fusioni, distopici futuri... niente di tutto questo è presente in A history of violence, che si compone fondamentalmente di una storia polverosa e granitica, all'apparenza semplice, ma in realtà piena di ferite e tormenti.
Proprio come la vita di Tom Stall.
Tom Stall sembrerebbe il classico e perfetto cittadino americano di provincia, una sua attività -una tavola calda- che lo mette in stretto contatto con i suoi concittadini, una moglie da amare con cui la passione non si è ancora sopita, due figli intelligenti e svegli. Sembrerebbe, dicevo, perchè un giorno due rissosi e inquietanti tipi si presentano alla sua tavola calda, si scaldano, e sono pronti a far fuori qualcuno, se non fosse che Tom prende in mano la situazione, e come niente fosse li uccide per primo.
Le domande sul suo passato iniziano quindi a sorgere, non solo allo sceriffo della città e alla moglie, ma anche a noi spettatori. Quando poi un altro losco personaggio arriva e insinua nuovi dubbi sulla sua presunta vera personalità, le crepe iniziano ad allargarsi.
Adattando il film dall'omonima graphic novel, Cronenberg pesa il tutto, lo equilibra, facendo capire fin dall'inizio che quella del film non è la classica storia americana, è una storia di violenza, gratuita e senza coscienza che non si ferma nemmeno davanti ad una bambina impaurita. La fredda e distaccata personalità di Tom è quindi un mistero che poco a poco si svelerà, portando l'intera famiglia a fare i conti con il suo passato, e a relazionarci, vuoi con un focoso rapporto, vuoi macchiandosi le mani di sangue.
L'inquietudine è così ancora una volta la sensazione che domina durante la visione, sottolineata nuovamente dalle musiche perfette di Howard Shore (compositore aficionados) ma soprattutto dalle interpretazioni dei vari attori. L'irriconoscibile Viggo Mortensen (almeno per chi, come me, lo identifica solo come Aragorn) è stiracchiato, stanco e tormentato, così come Ed Harris e William Hurt appaiono spietati e crudeli.
Lasciate da parte tematiche scomode, Cronenberg si dimostra capace di gestire al meglio anche un film impregnato di mascolinità come questo, donandogli una graniticità e uno spessore che portano il suo marchio di fabbrica.
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