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"A jé i partigia-n ch’a rivo"

Creato il 20 aprile 2015 da Pim

Madonna del Pilone, 25 aprile 1945Una raffica di mitra cadde vicinissimo e tutti nella borgata capirono che erano i partigiani. Coloro che si trovavano fuori, nella sera ormai tiepida di primavera, preferirono rientrare prima del coprifuoco. Non si trattava della solita incursione notturna, i tempi apparivano maturi per un’azione più decisa. Alcuni giorni prima era transitata lungo il Po la guarnigione repubblichina. Si stava ritirando, nel polverone, lasciandosi dietro un silenzio pieno di sollievo. Il presagio della fine.

Da Borgata Rosa, fino all’inizio della strada per Superga, era tutto un susseguirsi di prati e campi; i binari del tram passavano al centro di Corso Casale e andavano giù sino a Gassino. La Madonna del Pilone possedeva ancora le sue piole e qualche locale di prestigio: il Muletto, Goffi, Cucco. In fondo a Strada Valpiana si trovavano posizionati i cannoni contraerei. Nel Velodromo avevano stazionato i tedeschi, nessuno aveva capito cosa ci facessero. Il parroco era don Luigi Corgiatti, detto Barba Vigio, antifascista tosto, uno che diceva pane al pane. Ma in tutto il quartiere si agitavano fermenti di libertà, con quegli operai, quelle tessitrici, i tranvieri, gli studenti. C'erano socialisti, anarchici, liberi pensatori, qualche sindacalista cattolico. Clandestinamente operava anche un Cln che si riuniva nella società di mutuo soccorso De Amicis.

Il 25 mattina si respirava un’aria insolita. I volti della gente apparivano stupefatti, persino smarriti. A jé i partigia-n ch’a rivo. Il comandante Alì, Bill, Pieri-n, Ceco ‘l Matt, Gigi, Tom. Qualcuno di loro aveva un atteggiamento sbruffone, altri ostentavano indifferenza. Erano giovani e forti, spensierati e imprudenti. Portavano i capelli incolti, probabilmente non mandavano un buon odore. Tutti indossavano divise e imbracciavano armi diverse. Del loro coraggio arrivava voce da sopra le colline. Cinzano, Sciolze, Bardassano, nei boschi fino a Pino. Stavano combattendo l’ultima battaglia e la vincevano. Tirandosi su le brache di tela, i bambini li guardavano con un po’ d’invidia.

Ad attendere i partigiani c’erano le macerie del bombardamento a tappeto avvenuto nella notte del 13 luglio ’43. Una striscia che segnava il quartiere da Sassi alla barriera di Casale, corso Quintino Sella, il monte dei Cappuccini e ancora oltre, verso Cavoretto. Un solco di morte che il 26 aprile percorse la Brigata Monferrato, con il suo carro armato catturato ai repubblichini, per liberare questa parte di città. Non fu subito festa, non era ancora il tempo dei fiori sui balconi e delle piazze imbandierate. Si sparava ancora, i cecchini stavano in agguato sui tetti, la popolazione non usciva di casa e aveva paura. Ma il 6 maggio Torino era finalmente libera.

Partigiani. A settant'anni di distanza non è che una parola. Molti dei loro nomi sono stati scritti sulle lapidi in quei giorni, altri se ne sono andati nei decenni successivi. Chi è rimasto, però, racconta il giovanotto che era con un filo di immutato orgoglio. E si capisce che, a dispetto di quanti sminuiscono o negano, quelle storie riguardano tuttora la vita degli italiani. Non erano ideologi né rivoluzionari. Avevano idee semplici, aspiravano alla libertà e ne conoscevano il prezzo. Spetta a noi oggi difenderla. Anche per loro.

(Prima pubblicazione: 24 aprile 2008)


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