Magazine Cinema
"First they have you and your hypnotizing the audience in your relentless precision. They follow you like a cobra follows a snake charmer. Then, you have my father and he's adding color and texture and rhythm. He's always enhancing you and lifting you up but he'll never outshine you. [...] And then there's my mother. She adds a depth of sound that none of you can bring. She makes you want to weep without exactly knowing why. Is that the voice of a wounded soul? The survival skills she had to develop prepared her to serve three masters at the same time, the one she loves, the one she partners with and the one she desires."
Usare la macchina da presa per permettere a un pubblico profano e curioso di sbirciare da vicino il mistero che avvolge il mondo della musica classica e i suoi schivi professionisti è un'opportunità invitante, ma realizzare un'opera cinematografica appassionante e coinvolgente senza risultare eccessivamente distaccati o reverenti verso esperti e amatori e amatori è tutta un'altra musica: eppure, pellicole come A Late Quartet( in Italia, "una fragile armonia") ci dimostrano che in mezzo ai giganti delle grandi produzioni hollywoodiane un cinema intimo e attento è ancora possibile, per tradurre in immagini una polifonia di musica e umanità complessa e imperfetta fermandosi ad ascoltare quando l'occasione lo richieda.
Al suo esordio in un lungometraggio di finzione dopo l'acclamato documentario Watermarks, Yaron Zilberman segue il consiglio dei suoi stessi personaggi scegliendo come soggetto non l'Orchestra e le sue innumerevoli voci ma un semplice quartetto d'archi, pressato da quasi vent'anni di prove ininterrotte e lunghe tournée, sogni mai realizzati e speranze disilluse, perché solo un realtà tanto ristretta avrebbe potuto davvero dare ai suoi membri l'opportunità di costruire un'amicizia solida e un rapporto di fiducia assoluta.
L'equilibrio costruito nel tempo nascondendo sotto gli spartiti invidie, rivalità e insoddisfazioni si sgretola però precipitosamente quando uno dei membri è costretto ad abbandonare il gruppo a causa di una malattia dal decorso impietoso: ogni violino inizia a inseguire la musica corteggiandola con vanità e capriccio, impaziente di primeggiare a tutti i costi sugli altri e rischiando di compromettere per sempre l'armonia tanto faticosamente conquistata.
Seguendo un canovaccio abbastanza prevedibile e convenzionale, gli eventi fanno il loro corso dimostrando che non tutti gli allievi della prestigiosa Juilliard School riescono ad avere la consacrazione e il successo che gli erano stati promessi all'entrata e che anche la corda di violino più resistente soccombe sotto il peso delle nostre inevitabili debolezze di esseri umani.
A fare la differenza e a rendere la malinconica storia del quartetto dei Fugues una potente sinfonia sono le prove dei 4 attori protagonisti, tutti immensi nell'accordare il dolore e la fragilità di Robert, Peter, Juliette e Daniel al ritmo del film rivelandone cuore e anima: se a Philip Seymour Hoffman basta uno sguardo nello specchio per comunicare tutta la disillusione e la tristezza per un matrimonio e una carriera andati in pezzi, Christopher Walken raccoglie la sfida del personaggio più tragico della pellicola con aplomb e delicatezza, trasformando la sua inevitabile e pur dignitosa uscita di scena in un momento catartico e non forzatamente commovente.
A conquistarci senza condizioni è però l'ucraino Mark Ivanir nei panni di Daniel, fine tessitore di corde di violino, che pur avendo fondato i Fugues per costruire un legame che andasse al di là di una solitaria consacrazione non riesce mai a lasciarsi andare e ad abbandonarsi fino in fondo alla musica: l'amore per la giovane figlia di Robert Alexandra ( brava e bellissima Imogen Potts) sembra restituirgli la freschezza e la passione che gli erano mancate in tutta una vita, ma il prezzo da pagare per la felicità di un solista potrebbe rivelarsi fatale per l'esistenza dell'unica famiglia che abbia mai potuto e voluto avere.
Forse il finale rimane un tantino irrisolto ed è difficile immaginare che le devastanti fratture fra i membri del gruppo potranno mai ricomporsi, ma quando lo spirito dell'Op.131 di Beethoven inizia gradualmente a impossessarsi dei musicisti e del pubblico, l'unica cosa importante è lasciarsi trasportare dalla musica ritrovando finalmente l'armonia, anche se solo per un'ultima indimenticabile esecuzione: per un film tanto classico e misurato, la scommessa può dirsi comunque vinta.
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