A Matonna te ciu

Creato il 02 novembre 2011 da Cultura Salentina

di Lucio Causo

Ultimi resti Abbazia Madonna del Civo da una stampa d'epoca

Una volta, al mio paese, il 25 marzo di ogni anno, si festeggiava, la Madonna del Civo. Era una festa popolare e si svolgeva nel pomeriggio a pochi chilometri dall’abitato, in campagna, attorno ai resti di un’antica abbazia basiliana distrutta dai Turchi durante le scorrerie dell’estate del 1480 nel territorio salentino.

Un’antica pietra incisa, che costituiva la soglia della porta di casa di un contadino, diceva della costruzione nel 1514 di una cappella dedicata alla Madonna dell’Annunziata annessa all’abbazia, che spiegherebbe la devozione degli abitanti del luogo per la Vergine Annunziata (festeggiata il 25 marzo); devozione che si esprimeva fino a più di sessanta anni fa con una festa in onore di Santa Maria del Civo.

Cosimo De Giorgi, illustre studioso salentino, più di un secolo fa, raccomandava agli abitanti del vicino paese di salvaguardare quegli ultimi avanzi di un antico monastero di grande valore storico.

A Matonna te Ciu era un centro basiliano dove i monaci di S. Basilio venuti dall’Oriente, si erano stanziati nel Salento fin dagli inizi del secondo millennio. L’abbazia fu fondata nel secolo XII, al tempo dei primi Normanni duchi di Puglia, come riporta il De Giorgi, ed ebbe lunga vita, anche se dopo la distruzione perdette tutta la sua rinomanza.

I devoti raggiungevano quel luogo, circondato da vigneti d’uva nera e da secolari alberi d’ulivo, con carri agricoli e carretti tirati dai cavalli, con le biciclette, oppure a piedi. Erano le mamme che si tiravano dietro i figlioli per farli giocare e per venerare la Madonna.

Per arrivare a quel posto si doveva percorrere una stradina di campagna che si snodava come una serpe tra vecchi muriccioli a secco, costruiti dai contadini – pietra su pietra – per delimitare la proprietà dei campi.

Quella stradina era fatta di sassi e di terra battuta e ai margini si vedevano bene i solchi scavati dalle pesanti ruote dei carri, le così dette carrare.

La gente si avvicinava contenta fra le poche bancarelle improvvisate nel largo spiazzo di terra rossa, indurita dal tempo e dalla siccità, o sotto le chiome degli alberi d’ulivo per respirare l’aria frizzante della primavera. Si vendevano povere cose: noci, noccioline, castagne secche, mandorle abbrustolite, fave e ceci arrostiti, semi di zucca salati e abbrustoliti e le famose cupete, dolci tradizionali preparati con zucchero, miele e mandorle.

I bambini andavano pazzi per lo zucchero filato, i taralli zuccarati, e li zozzi; poi guardavano ammirati i giocattoli di legno e di latta costruiti dai bravi artigiani del paese. Le donne comperavano le noccioline che al ritorno in paese regalavano a parenti ed amici per devozione.

Le fisarmoniche suonavano canzoni paesane accompagnate da tamburelli e putipù; le ragazze cantavano a squarciagola e qualche giovane coppia ballava col viso sorridente. Grandi e piccoli si divertivano con poco e si respirava aria di festa.

Ad una certa ora arrivava Don Gennaro, il parroco del paese, scampanellando con la  sua vecchia bicicletta, e tutti gli si facevano attorno per salutarlo ed offrirgli frutta secca e pasticcini.

Dopo avere indossato i paramenti sacri, Don Gennaro dava inizio alle preghiere col Santo Rosario e con un certo disappunto di noi ragazzi che dovevamo stare immobili e in silenzio. Il suo sguardo era rivolto ai resti di un affresco orientaleggiante che raffigurava la Madonna del Civo.

Quell’antica immagine, smozzicata ed ormai ammuffita dal tempo, salvata per miracolo dalla distruzione degli uomini e dalle avversità atmosferiche, per secoli era rimasta quasi intatta su quel pezzo di muro sbrecciato, e perciò era venerata ed amata da tutti gli abitanti della zona.

Attorno ai ruderi dell’abbazia si notavano delle grosse buche scavate nella terra: alcune erano molto profonde e c’era il pericolo di frane. Gli anziani dicevano che in passato gli abitanti del posto avevano scavato a lungo, anche di notte, lì nei pressi, per trovare l’acchiatura, ossia il tesoro nascosto sotto terra dai monaci dell’antica abbazia, oppure dagli abitanti del paese, prima di scappare per l’arrivo dei Turchi. I ragazzi erano affascinati da quelle buche e dalla storia del tesoro nascosto, che non era stato mai trovato.

Finite le preghiere, la gente si sparpagliava nella campagna, si accomunava e fraternizzava anche con i forestieri venuti dai paese vicini. Le donne si sistemavano all’ombra degli alberi, per stendere le loro tovaglie di panno pesante sull’erba e per aprire le sporte di giunco e i panieri di vimini pieni di cibo.

Dopo la benedizione di Don Gennaro, venivano distribuite le pagnotte farcite con frittata di cipolle, salsiccia piccante e formaggio fresco e si mangiava di buon appetito fra risate, scherzi e giochi di bambini. Finalmente si passava alla consumazione della frutta fresca e secca e quindi dei dolci e pasticcini fatti in casa; il tutto veniva  annaffiato con del buon vino rosso, tenuto al fresco  nei recipienti di terracotta (urzuli).

Così, beandosi con canti e balli e con qualche sonnellino all’ombra degli alberi e dei muretti a secco, si attendeva il vespro per riprendere in pieno i festeggiamenti della Madonna fino al tramonto del sole. Intanto Don Gennaro distribuiva allegramente santini benedetti ed accarezzava i bambini con le sue grosse mani.

La festa consisteva nei soliti giochi di campagna: la corsa coi sacchi, il tiro alla fune e l’albero della cuccagna. Poi si riprendevano i canti popolari e si ballava la tradizionale pizzica-pizzica, a piedi nudi, con tamburelli, sciarpe rosse e zacareddhe colorate.

Prima che facesse buio, i festeggianti, stanchi ma contenti di aver trascorso una bella giornata all’aria aperta, in preghiera e in allegria, raccoglievano le poche cose ancora sparse sullo spiazzo di terra rossa, e, dopo aver salutato la Madonna facendosi il segno della croce, si preparavano a rientrare al paese e alle proprie case.

Lungo la stradina di campagna, mentre il cielo d’un celeste chiaro si tingeva di rosso, al tramonto del sole, i grossi carri agricoli e i carretti, carichi di persone anziane, donne e bambini, tirati da silenziosi e pazienti cavalli, procedevano lenti seguendo le carrare di antica memoria.

Sulla via del ritorno, tutti cantavano inneggiando a MARIA, per ringraziarla del tempo trascorso in pace ed in allegria con parenti ed amici.

Intanto, nel vicino paese, già immerso nelle tenebre, si sentivano i carri arrivare accompagnati dal canto delle donne e dei bambini.

Le persone rimaste a casa, stavano sull’uscio o si affacciavano alle finestre per salutare i devoti che rientravano dalla festa te la Matonna te Ciu.

Man mano che i carri si avvicinavano al paese, nell’aria fresca e serena della sera, si diffondeva l’inno che quella povera gente alzava, con tutto il cuore e tutta la sua devozione alla Madonna :

Mira il tuo popolo,
o bella  Signora,
che pien di giubilo,
oggi ti onora…

Ora, quella stradina di campagna, stretta dai muriccioli a secco e scavata da lunghe carrare, non esiste più; come non c’è più traccia dello spiazzo di terra rossa, circondato da vigneti d’uva nera e da secolari alberi d’ulivo, ove, nel tempo e nella storia, erano rimasti immoti i ruderi di quell’antica abbazia costruita da poveri e devoti monaci basiliani. Non esiste più neppure il pezzo di muro sbrecciato con l’immagine affrescata della Madonna del Civo. Al loro posto c’è una bella strada asfaltata, percorsa da moderne e veloci autovetture, ed una vasta zona residenziale, con verde attrezzato e con bianche villette a schiera fatte di mattoni, vetro e cemento.


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