“a me non succederà mai”

Da Chiara Lorenzetti

Quella volta aveva corso un grave rischio, maledettamente affannato. S’era sentito braccato, spinto, sospinto, acceso, spento, delirato. Non era stata una gran bella sensazione, fiuto di cane, nascosto nel sottobosco, mimetizzato tra le piante e le radici. Non dormiva la notte, vegliava il prossimo attacco, la prossima minaccia, le spalle sempre scoperte, in agguato, in attesa, fosca, nera, buia; sempre di notte, mai di giorno, il colpo arrivava e lui non lo scansava mai. Si era dato del fesso, dell’idiota, del santo, del beone, mai del leone, troppo spesso, inevitabilmente, del coglione.

Gli sarebbe bastata una mossa, ne aveva di cartucce in canna, esplosive, distruttive, un napalm che avrebbe irrimediabilmente raso al suolo ogni respiro, ogni intenzione, ogni vagito. Gli sarebbero bastate poche parole, nemmeno troppo ben confezionate, la grammatica l’avrebbe lasciata ai poeti. E sarebbe bastato, eccome se sarebbe bastato. Un colpo, sbam, e poi la morte tutto intorno. E lui sarebbe stato libero.

Ma la sua dannazione, la sua colpa, erano il perdono, la comprensione, il tempo da passare, il futuro, la speranza, quei cacchio di ideali che s’era costruito da sé ed aveva esportato, maledizione, tramandati a nastro nella mente dei suoi consanguinei. E ne aveva sparso il seme; mai illusione s’era fatta più corposa, più fattiva e vera dentro di lui. Quei suoi passi gli parevano diretti ma erano sempre troppo acerbi, mai maturo il tempo dell’azione, mai destinazione certa, mai voce urlata, mai decisione piana e piena: un nulla vuoto ed etero, un sorriso cieco, un sordo rimbombo.

Il tempo aveva quindi fatto il suo corso e lui s’era ritrovato sempre più nascosto, messo al bando, reietto da sé, filtrato tra le foglie, rispedito al mittente, dallo specchietto retrovisore il lusso d’appartenere; s’era trovato ad essere un tempo rimandato, fluttuante, deposto pregato in attesa di rinnovata esistenza. Viveva in una sorta di buco, frecce da ogni dove, ormai bersaglio, capro espiatorio, valvola per la pazzia d’altri, frustrazioni represse, reprimende di annoiati esseri senza midollo, colpevoli e bigotti, incarcerati nelle proprie desolazioni. Lui era il centro, da colpire sempre, senza esitazioni, che di nulla era fatta la sua vendetta, di chiaro la sua rabbia, di fumo la sua desolazione.

Poi una tregua insperata, il silenzio che vince, la libertà raggiunta, il passo oltre? Ne aveva sentite tante, ne aveva lette, ascoltate, pagate, con il capo chino, il cuore a mille; aveva domandato ad altri il suo futuro, nessuna palla di vetro, solo convinzioni chiedeva. E gli erano state date, chiare, nette, decise, scritte nero su bianco, sigillate, bollate, definite. Gli avevano srotolata la mappa, quella del bosco in cui s’era dovuto nascondere, e con le mani avevano indicato le trappole nascoste, i guerriglieri mimetizzati, gli animali in agguato, metafore della sua vita, esperienze vissute e non considerate così importanti da fuggire davvero. Gli avevano fatto vedere i suoi sbagli, le sue ingenuità, gli errori degli altri, uno dopo l’altro, una corona di spine, il sangue versato, i suoi occhi ciechi, la sua fiducia, vana. Gli avevano mostrato, il dito proteso, dove fuggire, la via per scappare, perché per tutti quella era una storia da fuggire, un bosco malato, pieno di insidie e drammi, di battaglie mai vinte, di dolori, bugie, paranoie, di colpi sparati da più parti, un luogo di odio e di morte certa. Una brutta vicenda, insomma.

Ora era in attesa, non era pronto alla fuga, qualche munizione sparsa, il fucile scarico.
In fondo, si disse “A me non succederà mai”

Chiara 


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