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A Memory of Light: una conclusione per La Ruota del Tempo

Creato il 24 gennaio 2013 da Martinaframmartino

A Memory of Light: +440

Questa non è una recensione. Ho finito A Memory of Light, cosa non sorprendente visti i commenti di due giorni fa, ma la recensione la pubblicherò su FantasyMagazine. Probabilmente uscirà lunedì, sempre che io riesca a scriverla in tempo. Queste sono semplicemente impressioni di lettura, commenti sparsi su quanto ho letto. Spoiler praticamente assenti, anche se avrei voglia di entrare in dettaglio su tanti punti. Per ora comunque non lo farò, sia perché impiegherei troppo tempo se davvero dovessi scrivere quello che penso e fermarmi ad analizzare quello che provo, sia perché il romanzo al momento è disponibile solo in lingua originale. Quando sono state pubblicati i primi commenti, quelli di Jason Denzel e di Leigh Butler, io ero curiosa. Volevo sapere se davvero la fine era degna della storia che mi aveva accompagnata per tutti questi anni, perciò li ho letti sapendo di non correre il rischio di rovinarmi la lettura. Questo è quel che intendo fare io ora, per tutti coloro che non vogliono o non sono in grado di leggere la storia in lingua originale come in passato è successo anche a me. Suppongo che farò commenti più espliciti dopo la traduzione del romanzo, un po’ come ho già fatto con A Dance with Dragons di George R.R. Martin

Per ora ben poco si sa della traduzione in italiano di A Memory of Light. Sul sito di Fanucci c’è scritto testualmente “aspettiamo con impazienza di potervi dare ulteriori dettagli sulla pubblicazione di A memory of light, quattordicesimo e conclusivo episodio della saga best seller La Ruota del Tempo”, mentre nella pagina Facebook l’editore aveva risposto alla domanda di un lettore (vero Ivan?) che il romanzo sarebbe stato pubblicato fra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Insomma, è solo questione di mesi.

A Memory of Light: una conclusione per La Ruota del Tempo

Fra i commenti che avevo letto c’era stata l’affermazione che A Memory of Light è tutto quanto ci saremmo aspettati e anche molto di più. In parte condivido quest’affermazione. Alcuni personaggi sono grandiosi, quello che fanno è epico, o drammatico, o divertente, o al di là di una qualsiasi definizione non-spoiler. Il problema è che i personaggi sono semplicemente troppi quindi abbiamo, per esempio, una figura per la quale ci siamo preoccupati per non so quanti romanzi che fa una semplice comparsata di una o due righe. Il suo ruolo nella storia più grande può anche essere finito, ma i sentimenti non sono legati solo all’importanza di ciascuno nell’Ultima Battaglia. Lo ha capito Rand nella sua personale rivelazione sulla montagna, quello che conta sono i sentimenti. Non ci si può indurire in eterno, altrimenti spezzarsi diventa inevitabile.

Perciò i personaggi non sono solo armi, e non vederli, o vederli troppo di sfuggita, lascia un senso di vuoto. Non solo, mentre il conflitto con il Tenebroso ha una sua conclusione, per quanto diversa da quel che ci saremmo aspettati, un’infinità di altre vicende non hanno una soluzione. Davvero sento la mancanza di quelle storie outrigger che Robert Jordan aveva progettato e che purtroppo non leggeremo mai. Troppi fili sciolti, troppe domande senza risposta, anche se è evidente che il futuro è ancora tutto da scrivere e che saremo noi a scriverlo come vorremo. Forse è questo che indica la conclusione, al di là dell’impossibilità di inserire troppe cose in un unico volume di dimensioni già notevoli.

Brandon Sanderson è stato bravo, ha condotto bene la storia, ma viene da chiedersi come sarebbero state queste pagine se avesse potuto ultimarle il loro Creatore. Io conosco un po’ la biografia di James Oliver Rigney Jr., l’uomo diventato famoso come Robert Jordan. Tutti noi abbiamo conosciuto quanto meno il nome dello scrittore, ma dietro quella facciata c’era un uomo che era stato in guerra e che aveva vissuto esperienze che non voglio nemmeno provare a immaginare. E traspare tanto di lui in queste pagine, nei momenti più cupi come in quelli più felici. Lui scriveva perché era stato in Vietnam, e qui la sua vita brilla alla massima potenza. Abbiamo scene di guerra enormi, volendo potremmo dire che il romanzo è quasi solo un’unica ininterrotta battaglia, ma non sono mai scene gratuite. C’è un motivo, che non è sempre quel che ci aspetteremmo, dietro a ogni decisione, dietro a ogni azione. Ci sono tradimenti, imbrogli, c’è il ritorno di un’infinità di indizi disseminati lungo le migliaia di pagine precedenti. Ci sono personaggi che in passato avevo creduto di aver perso e che qui dimostrano ciò di cui sono capaci. Sopravvivono figure che avrei dato per spacciate e ne muoiono altre che ero convinta avessero ancora molte cose da fare.

Overwhelming

Questo, in sintesi, è quest’ultimo romanzo. Con calma lo rileggerò, cercherò le fonti nascoste, metterò insieme gli indizi, farò tutti i collegamenti di cui sarà capace, ma per ora sono sopraffatta. Non è una posa quella di usare una parola inglese, io che ho sempre odiato l’utilizzo di parole straniere inserite dentro a un discorso tanto per darsi un tono. Forse è il fatto di aver letto il romanzo in lingua originale ad avermi portato in mente per prima questa parola, in fondo è anche la lingua che usiamo a formare i nostri pensieri. Comunque mi piace il suono, la sensazione di qualcosa di talmente vasto da non poterlo assorbire tutto in una volta, nel bene o nel male. Sono sopraffatta, tanto è vero che ho avuto bisogno di un intero giorno di pausa prima di pensare di poter scrivere qualcosa.

Bello, senza alcun dubbio. E non m’importa nulla di chi dice che è prolisso o che ci sono scene inutili e riempitive. Ci sono scene che non mi sono piaciute, eventi che non mi sono piaciuti, ma il quadro complessivo, per quanto sfilacciato in alcuni margini, è grandioso. Jordan è Jordan, lo abbiamo sempre saputo che lui scrive così. Ha bisogno di tempo per andare da un punto a un altro? Per quanto mi riguarda è tempo ben speso. È un po’ come fare un viaggio: se si ha fretta si opta per l’autostrada, ma se si vuole gustare il viaggio si sceglie la strada panoramica. Nella lettura io scelgo sempre la strada panoramica, l’alternativa, il bigino, la lascio agli studenti svogliati. Poi c’è stile e stile, l’ho detto due giorni fa paragonando le opere di Jordan a quelle di Guy Gavriel Kay, ma questo non significa che non li si possa amare entrambi. Si possono amare allo stesso modo Paolo Uccello e Vasilij Kandinskij, l’uno non esclude necessariamente l’altro. Perciò chi non ama lo stile di Jordan non amerà neppure questo libro, ammesso che sia stato tanto masochista da arrivare in fondo a un’opera di questa lunghezza senza apprezzarla. Chi invece lo ama potrà trovare delle pecche, ma non potrà negare la grandiosità della visione d’insieme. Non abbiamo la fine che avremmo voluto, quella in cui abbiamo sperato nel modo in cui l’avremmo desiderata. Ci sono tante cose che mancano a questa conclusione, ma anche così non si può che rimanere ammirati da quel che James Rigney è stato capace di fare. Lui, come Rand, è venuto come il vento, come il vento ha toccato tutto e come il vento è andato. Mi mancherà, e mi mancheranno le sue storie. In attesa, in un giorno non troppo lontano, di ricominciare un nuovo giro insieme a quel vento che si leva per la prima volta nelle Montagne di nebbia.



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