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A Memory of Light: una recensione

Creato il 27 febbraio 2013 da Martinaframmartino

A Memory of Light: una recensione

Ogni recensione è una scommessa, giocata sul filo sottile del dire e del non dire. Chi la legge vuole scoprire se il libro di cui si parla è interessante, ma allo stesso tempo non vuole che gli vengano rivelate informazioni sulla trama. E per chi la scrive diventa un gioco di equilibrio, la necessità di parlare senza comunque rivelare troppo.

Scrivere un testo, qualsiasi tipo di testo, comporta delle scelte continue su cosa è davvero importante e va detto e cosa invece può, o magari deve, essere lasciato fuori.

Su queste premesse chi scrive una recensione lavora per creare un testo che è forzatamente figlio di un testo più grande, al quale fa continuamente riferimento senza però poterne parlare davvero.

Alcune cose sono oggettive, la grammatica ha le sue regole e chi le sbaglia è certamente nel torto. Ma per alcuni elementi di facile valutazione molti di più sono soggettivi, e come tali legati a interpretazioni personali. Quando un libro diventa noioso? Quando invece è esaltante? Cosa è soddisfacente? E quanto cambiano le nostre percezioni in base alle aspettative che ci eravamo creati prima di iniziare la lettura?

 

Ho iniziato a leggere La Ruota del Tempo nel 1992. Sono cresciuta con questa storia, con questi personaggi. La mia vita è cambiata in modi che vent’anni fa non avrei potuto prevedere. Non per tutti è così. La maggior parte dei lettori sono arrivati dopo di me e hanno percorso insieme ai personaggi di Robert Jordan un cammino più breve dal punto di vista del tempo, ma il percorso emotivo è stato lo stesso.

Come ci si rapporta a qualcosa che fa parte della propria vita da così tanto tempo? A qualcosa che ci ha coinvolti così tanto?

La lettura di A Memory of Light è stata viscerale. C’era la conspevolezza della fine di una parte importante della mia vita ma anche il desiderio di conoscere la fine. Le reazioni emotive sono state forti, in alcuni punti fortissime. Delusione anche, in alcuni casi. Gioia. Tristezza. Paura. Divertimento. Trepidazione. Senso di benessere. Speranza. Aspettativa. Perplessità. Riconoscimento. Affanno. Sollievo. Ma, sopra ogni cosa, sopra a emozioni difficili da separare e a pensieri troppo confusi per poterli esprimere c’era l’impulso ad andare avanti.

Quando un libro entra in sintonia con il lettore la sua forza è enorme. Cattura qualcosa dentro e non lo lascia più andare, e una semplice recensione, con la sua impossibilità a spiegare davvero quanto avviene all’interno della storia, è per forza di cose limitata e limitante. Ma è tutto quello che si può fare.

Non esiste la recensione. Si può solo scrivere una recensione, dedicata a un tempo che gira come una ruota e ai ricordi della luce.

A Memory of Light: una recensione

È finita. Dopo quattordici romanzi, oltre dodicimila pagine e un arco di tempo che, per i primi lettori, ha superato i vent’anni, La Ruota del Tempo è finalmente finita. Brandon Sanderson ha concluso la saga che solo la morte aveva impedito a Robert Jordan di ultimare, ma ci sono cose che nemmeno la morte può impedire. La prova è in quest’ultimo volume, pubblicato oltre cinque anni dopo la scomparsa di Jordan e capace di spingere i lettori in un mondo nel quale la morte non è la forza più potente. Perché se noi ora possiamo leggere le sue parole, e se i suoi personaggi sono capaci di compiere imprese a volte memorabili, è perché c’è qualcosa che va oltre la morte.

Noi siamo semplicemente uomini. Lo dice con convinzione Lan, in uno dei momenti più “giusti” dell’intero volume, ed è vero, in qualunque circostanza. Basta semplicemente ricordarlo. E gli uomini possono fare cose straordinarie se lo vogliono davvero.

È questo il lascito che James Oliver Rigney Jr. voleva donare ai suoi lettori. La consapevolezza di quel che è e di quel che può fare ciascun essere umano. Semplicemente uomini, ciascuno impegnato a tessere il suo filo nel grande arazzo del tempo.

A Memory of Light: una recensione
Non senza una profonda malinconia A Memory of Light conclude la saga. Non lo possono dimenticare i lettori, consapevoli che ciascuna nuova parola che leggono è un’ultima parola nuova letta per la prima volta. La storia è semplicemente durata troppo a lungo perché questo romanzo possa essere analizzato con distacco, come se fosse un qualsiasi altro romanzo. Lo è, perché ciascun’opera di narrativa deve fare i conti con lo stile del suo autore, i contenuti, il ritmo e un’infinità di altri elementi, ma è anche la somma di tutte le aspettative che si sono sedimentate nel corso del tempo e che gravano su queste pagine più pesanti di una montagna.

Perciò se ogni testo va valutato per quello che realmente è, questo è anche la somma dei sogni e delle aspettative di tutti coloro che hanno legato le loro emozioni alla Ruota del Tempo.

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda” aveva scritto per la prima volta Jordan tanti anni fa. “Non c’è inizio ne fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma” quello dell’Occhio del Mondo “fu comunque un inizio.”

E qui, ora, abbiamo una fine. Non la fine, perché questo richiederebbe una conclusione definitiva per tutti i personaggi, cosa che ovviamente non ci può essere. Nemmeno la morte può davvero mettere la parola fine a una storia, come ci ricordano gli Eroi del Corno. Due di loro in particolare sono protagonisti di scene esaltanti, che donano un senso di perfetta compiutezza alla trame cui appartengono. Forse le cose avrebbero potuto andare in modo diverso ma è giusto così, con gesti che in pochi istanti cambiano intere prospettive.

A Memory of Light: una recensione
L’articolo indeterminativo dunque, e non quello determinativo, anche perché sono tante, troppe, le domande senza risposta. Ci sono quesiti nati già nel primo romanzo che non vengono risolti, e interrogativi pesantissimi sul futuro che dipenderanno solo dalle scelte che ciascun personaggio potrà compiere. Il destino non è fissato e immutabile, e tante cose possono ancora accadere. Potrebbero accadere, sarebbero potute accadere, se Jordan non fosse morto.

I personaggi sono troppi, e in nessun modo Robert avrebbe potuto fare quel che Brandon non ha fatto e dare giustizia a ciascuno di loro in una conclusione contenuta in un unico volume. Avrebbe, però, potuto tornare nel suo mondo e narrarci nuove storie, come per qualche tempo aveva pianificato. Ma no, non ci saranno altri romanzi. Ora quei fili sciolti, quelle storie che non hanno una soluzione, non potranno mai averla. È questo il peso del volume, il nodo indissolubile che fa da contraltare da tutto il resto. E il resto è semplicemente overwhelming, sopraffacente.

La gran parte del romanzo è costituita da battaglie. La cosa non è sorprendente, da sempre sappiamo che saremmo arrivati all’Ultima Battaglia. Avevamo avuto il primo assaggio a Falme, verso la fine della Grande caccia, e in seguito ne erano arrivati numerosi altri. I Fiumi Gemelli nell’Ascesa dell’Ombra e poi l’assedio di Cairhien, i Pozzi di Dumai, gli scontri con i Seanchan, la liberazione di Faile, la guerra civile a Caemlyn, e tanti altri confronti più o meno estesi. Qui le scene di guerra dominano le pagine, ma riescono a non diventare mai pesanti o ripetitive. L’alternarsi di punti di vista e di situazioni, dai generali che pianificano la strategia ai soldati che combattono per sopravvivere in situazioni disperate ma senza mai dimenticare la propria individualtà, la varietà nell’uso di armi tradizionali o dell’Unico Potere in modi anche sorprendenti, donano una forza propulsiva alle pagine che spingono il lettore ad andare sempre più avanti.

A Memory of Light: una recensione

Robert Jordan

Sono pagine a volte disperate, a volte epiche, a volte persino divertenti, sempre necessarie. I lettori di Jordan sono abituati a uno svolgersi degli eventi lento, con ogni passo attentamente pianificato prima del suo svolgimento e un’esposizione dettagliata di quanto accade. Caratteristiche che non cambiano solo perché A Memory of Light è l’ultimo volume e il tempo stringe. Ci sono grosse pianificazioni prima degli scontri, e c’è anche il tempo per alcune lezioni fondamentali o per rivivere momenti del passato e donargli una nuova luce. La Ruota del Tempo gira e quel che è stato è destinato a tornate, magari sotto nuova forma, sublimato o interiorizzato nell’animo dei personaggi. Il senso di ciclicità, di qualcosa che torna è forte, ed è incredibile vedere quanti sono i momenti del passato che all’epoca erano sembrati solo fini a se stessi e destinati a risolversi in quell’unica scena in cui erano stati descritti che si ripropongono sempre nuovi, donando a chi li vive nuove prospettive per il futuro.

Una delle immagini conclusive delle Torri di mezzanotte era stata quella di Talmanes che si affrettava verso Caemlyn nel tentativo di salvare i draghi dalle mani dell’Ombra. E Talmanes è uno dei primi a tornare, con la sua lotta disperata fuori e dentro la città. Lui e i suoi uomini lottano e muoiono mentre al Campo di Merrilor gli altri personaggi pianificano, alternanza fra scene frenetiche e una calma quasi irreale che caratterizza la prima parte del romanzo consentendo agli autori di far scendere un po’ la tensione e di sistemare tanti piccoli dettagli. Fino a quando la pressione diventa troppo forte, sopraffacente, e l’unica cosa che conta è andare avanti. La battaglia, vissuta in modo frammentario all’interno del prologo, da un certo punto in poi diventa tutt’uno con la storia.

Sono un’infinità i momenti di eroismo, piccoli e grandi. Non tutti riescono nel loro intento, le perdite sono numerose e drammatiche, e in qualche caso riguardano personaggi che abbiamo seguito lungo tutta la loro crescita. Ma tutti, vincitori e vinti, hanno una missione da compiere, o un messaggio da trasmettere, e la loro lotta non è mai vana.

Senza troppe sorprese chi spicca maggiormente è Rand, capace di passare da una scena toccante con Tam a una gara divertente con Mat, fino al confronto finale con il Tenebroso.

A Memory of Light: una recensione
Quasi altrettanto importante, e toccante, è Egwene. Come afferma Siuan, quel che ciascuno può realizzare con il suo operato impallidisce in confronto a quel che può essere raggiunto con la sua eredità. L’ex Amyrlin non può certo immaginare tutte le implicazioni delle sue parole e come prenderanno vita, ma sono parole vere e più forti che mai.

Sono comunque tanti, troppi, i personaggi per poterli citare tutti. Sono troppi anche perché la storia di ciascuno di loro possa avere una degna conclusione, e così ci sono figure liquidate in una manciata di righe, quando non ignorate del tutto. Ancora peggio, ci sono personaggi intorno ai quali erano cresciute notevoli aspettative che ricoprono invece ruoli del tutto marginali. Il sospetto, in questo caso, è che Jordan non abbia lasciato ai suoi successori abbastanza indicazioni su come sciogliere determinati problemi.

A Memory of Light è un ottimo libro, ma non è il miglior libro possibile. Se anche per Jordan sarebbe stato impossibile annodare tutti i fili che nel corso degli anni ha inserito nella trama, in alcuni punti avrebbe comunque potuto realizzare un disegno migliore per il solo fatto che quel disegno era nella sua testa. Il Team Jordan (composto, oltre che da Sanderson, da Harriet McDougal, Maria Simmons e Alan Romanczuk) ha probabilmente realizzato il miglior lavoro possibile, chiudendo tutti i buchi per i quali avevano a disposizione almeno un abbozzo da seguire, ma non poteva conoscere Randland come il suo Creatore.

Alla fine la lettura si compone di una moltitudine di sentimenti. La malinconia per la consapevolezza della fine della storia. Il piacere per una degna conclusione almeno per la parte più importante della trama. Il senso di circolarità di tutta la struttura, che conferma il tema della ruota senza trascurare però le piccole variazioni presenti a ogni nuovo giro. La possibilità di usare lo specchio della fantasia come riflesso della realtà. Il senso di giustezza e di perfezione donato da una manciata di scene. La paura, i dubbi, il dolore, la gioia e il divertimento che si susseguono scena dopo scena fino al confronto finale.

L’ultima frase, quella che chiude il libro, è nota ormai da molti anni, anche se i lettori non sapevano se e dove l’avrebbero trovata. L’ha scritta Jordan riferendosi a Rand, ma potrebbe essere dedicata a Robert stesso e alla sua opera. “È venuto come il vento, come il vento ha toccato tutto, e come il vento è andato.” Ma, aggiungiamo noi, la sua eredità rimarrà a lungo.

 



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