I giurati rimasero riuniti per sei minuti, il tempo per prendersi un caffè, poi, rientrati in aula, stiracchiandosi, consegnarono la sentenza al giudice che, calato con noia evidente il martello, decretò sbadigliando la sua condanna a morte. Lui, il reo – confesso, sia chiaro – apprese la notizia con una certa rassegnazione. Non s'aspettava certo altro e non ci si poteva aspettare di meglio anche perché – diciamocelo – l'avvocato difensore non era quel che si direbbe un genio. Mi sento di aggiungere che il condannato, dato il suo carattere, non avrebbe certo preferito un ergastolo rispetto alla forca. Ricordando la lunga lista di precedenti e l'apparentemente insensata aggravante della crudeltà sulla vittima, ci rendiamo infine conto che la condanna fu l'unica possibile.
Se poi è vero ciò che disse l'imputato, nella sua breve dichiarazione a fine processo, che s'era dato al crimine per tirare a campare, di certo l'impiccagione gli avrebbe risolto il problema. Insomma, senza esagerare, possiamo dire che tutto sommato, alla fine del procedimento, si sentì piuttosto sollevato.In attesa d'esser sollevato dalla corda.Era un ladro, lui. Un ladro d'appartamento serio, però, non uno di quelli che d'estate t'entrano dalla finestra, arraffano quel che possono e poi, quando gli appari davanti in mutande, agghiacciante nella luce giallina del corridoio, loro, d'istinto ed in mancanza di meglio da fare, ti spaccano la testa con una chiave inglese.Lui, quando pensava che ne valesse la pena, stava anche settimane appostato davanti ad un'abitazione. Studiava tutti i movimenti, le abitudini degli inquilini. Conosceva, alla fine di quest'osservazione, l'orario dell'uscita, del rientro, il giorno in cui venivano degli ospiti ed anche l'ora ed il giorno in cui sarebbero potuti arrivare. Tanto che avrebbe potuto benissimo, una sera, telefonare a quella gente e dir loro: è meglio che non vi rilassiate troppo dopo cena, vedrete che verrà a trovarvi il tizio col macchinone, stasera si porterà un'amichetta, quella bionda.Una roba seria, insomma.Quel giorno – quel giorno fatale – entrò sicuro, dunque, in quella abitazione, senza esitazione alcuna. Ma contrariamente a qualsiasi certezza aquisita da tanta esperienza ed osservazione, e nonostante fosse piena mattina, gli capitò di scontrarsi con la signora – in mutande – agghiacciante nella luce giallina del corridoio.Lui, che non era un improvvisato, non pensò neppure di brandire un soprammobile qualunque e di calarlo con violenza sul cranio della donna. A quanto disse al processo, e, a questo punto, vale la pena di credergli, non pensò neppure di colpirla. Freddamente, capì che, rimasto nell'ombra com'era non sarebbe certamente stato riconoscibile e avrebbe potuto certamente girare i tacchi e filarsela. E chiuso il discorso. E la signora sarebbe rimasta là, in mutande, in corridoio, con tanto di punti esclamativo e di domanda sospesi sopra alla testa. Invece no. La colpì. E la colpì ancora ed ancora. In modo insensatamente feroce. Esagerato. Apparentemente, almeno. L'accusa, al processo, ipotizzò che tutta questa ferocia gli scaturì dal suo orgoglio ferito di gran ladro. Cioè: scoprire che tutta quello studio fatto, l'esperienza di anni, tutto quell'immane lavoro fossero completamente inutili. Che da gran ladro che si sentiva fino ad un minuto prima, si ritrovasse strapiombato al livello di topo d'appartamento estivo. Una cosa che non seppe accettare ed eccetera eccetera ecco ecco... roba da avvocati, che però lo spinsero fino al cappio.