A bosu nau, poetas, conis
de lugoris e silenzius,
sennoris de praias umidas
assoladas, interpretis de caus
chi bolant citius cara
a corriolus arrubius
de celu aba morrit sa dì;
a bosu, eia, chi currispundeis
a banda lada cun su misteriu
de s’Omini e de su Criau:
imprestaimì versus,
una farrancada vetti,
po chi pozza onorai
cun fueddus sprighittaus
s’amigu chi mi stimat.
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Dico a voi, poeti, complici
di notti di luna e di silenzi,
signori di spiagge umide
assolate, interpreti di gabbiani
che volano taciturni
verso brandelli purpurei
di cielo dove muore il giorno;
a voi, sì, che corrispondete
a banda larga col mistero
dell’Uomo e del Creato:
prestatemi dei versi,
una manciata soltanto,
perché possa onorare
con accenti eleganti
l’amico che mi stima.
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A un anno esatto dalla morte di GFP,
è venuto a mancare alla famiglia e al mondo Placido Cherchi.
Molti ne hanno scritto, più di me edotti sulla sua opera,
non superiori a me nella stima e nella gratitudine.
IL MIO RICORDO DI PLACIDO CHERCHI
Lo incontrai per la prima volta nella piazza della chiesa dell’Assunta a Selargius. Era una serataccia di un giorno del dicembre 1995. Professor Cherchi doveva tenere una conferenza dal titolo “Alcuni problemi del fare arte in Sardegna”, in concomitanza di una mostra collettiva di pittura, organizzata dall’Associazione Sel & Sar a fianco della chiesa di san Giuliano.
L’ospite mi era sembrato piccolo, magro, ben imbottito dentro un cappotto, guarnito di abbondante sciarpa che debordava sin sopra il berretto. In pratica, si vedevano solamente le sopracciglia e gli occhi. E non era poco!
Arrivammo a lui tramite una sua amica e collega docente di liceo, la professoressa Livi, socia fondatrice dell’associazione.
Mi piacque subito per come mi guardò quando arrivammo dentro, alla luce, dove si sfilò la sciarpa. Ero però in ansia a causa del fatto che eravamo una dozzina in tutto, quelli accorsi ad ascoltarlo. Al mio mettere le mani avanti per scusarmi della ristrettezza dell’uditorio, precisò con un sorriso furtivo, dei suoi, come fosse interessato più alla qualità che alla quantità degli ascoltatori. “E se questi sono qui, non ostante il tempaccio…” concluse.
Il titolo mi aveva orientato verso discorsi di quelli che si leggono nelle recensioni tipiche sui pittori, invece Placido (mi chiese subito di chiamarlo così) parlò per un’ora e mezza di fila, fermandosi solamente per accendere qualche sigaretta.
Altro che recensione! Iniziò a parlare della enorme diffusione delle attività estetiche nel mondo sardo, sia di tipo pittorico, che poetico, pare con rapporto di sette ad uno nel confronto col resto dell’Italia, causato dal fatto che sembrava essere l’unica uscita di sicurezza in cui l’iniziativa individuale poteva esprimersi, in una società molto compatta intorno ai doveri individuali e collettivi. Per giustificare quanto affermato, portò a dimostrazione l’opera di psicologia storica dello studioso statunitense Julian Jaynes, intitolata “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”. Arrivò a spiegarci, ma quanta fatica stargli dietro!, che la lingua stessa dei sardi è il sintomo residuo di quella “bicameralità” del cervello dei sardi, reso evidente dal “senso di doverosità problematica che è presente in maniera dilagante nelle strutture della nostra lingua, o fermarsi a riflettere sulla metafisica del possibile che caratterizza il modo di definire l’azione da parte del congegno verbale di cui disponiamo”, così come ha sintetizzato in un saggio posteriore intitolato “Due o tre cose per decidere di essere sardi”.
Se Cicito Masala, fra il quale e il nostro fluiva una corrente di amicizia, di rispetto e di stima, nel mio subconscio è stato il padre, Placido ha avuto la parte del fratello maggiore.
Molto maggiore, direi.
Fu lui uno dei presentatori del mio primo romanzo, quel “A unus a unus appillant is steddus”, che poi recensì sull’Unione Sarda talché, quello che scrisse di me e della letteratura sarda in sardo, fece scalpore. Il mio ricordo, per quella serata, è che, ascoltandolo, non riuscivo a capacitarmi che stesse parlando proprio di me, date le parole usate.
Presentò in un paio di occasioni il mio secondo romanzo, “Ogus citius” e non oso ripetere quanto affermò a Sanluri. Se Cicito era prodigo di consigli (e Dio sa quanto mi servissero!), Placido era prodigo di domande: perché, perché, perché. Mi metteva a disagio, ma comprendevo che voleva capire, capire sino in fondo. Una sola sua domanda restò inevasa, anche se me la ripropose decine di volte, più di una volta per ogni occasione in cui ci s’incontrava: ma cosa c’era nelle valige di Ogus Citius?
Placido, amigu meu, oggi te lo direi, insomma, qualcosa m’inventerei, per farti contento. Forse però, ora non serve più, lo sa già.
Ti chiedo scusa se ho pensato a te per costruire il personaggio principale nel romanzo “Arega-pon-pon”: quel Placido, appunto, alle prese con la fine del mondo, che riesce ancora a produrre pensieri razionali e a rendersi conto, egli soltanto, di essere già morto, in una Cagliari-cimitero ormai fuori dal tempo.
Che sei un idolo per me, te l’ho detto più d’una volta quando eri vivo: lascia che te lo ripeta oggi, adesso, come ho appreso della tua morte e ho capito quanto mi mancherai.
Selargius, 27 settembre 2013
Featured image, Aristotele precettore di Alessandro Magno e precursore dell’antropologia.
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