di Gabriele Merlini
In Repubblica Ceca tra stampa e politica c’è stato – e continua ad esserci – un costante incitamento al recupero dei «sani valori nazionali» intesi come tramite imprescindibile per la stabilizzazione istituzionale e la coesione popolare. Faccenda comprensibile nonché diffusissima a qualsiasi latitudine, ma quali sarebbero nello specifico i capisaldi verso cui voltarsi alla bisogna tra Praga e Brno? Su Transition on line la giornalista Kateřina Šafaříková inquadra l’argomento attraverso una prospettiva quantomai particolare.
Contestualizzando: sia Václav Klaus che Miloš Zeman (secondo e terzo capo di stato cechi) sul tasto hanno premuto con forza durante questi anni o mesi. Klaus in chiave anti-haveliana, descrivendo il predecessore come un europeista eccessivamente sognatore poco legato alla natura più intima della propria terra, mentre Zeman da un’ottica spiccatamente anti-schwarzenbergiana: mica un ceco purosangue. Lo sfidante altro non sarebbe stato che un mezzo austriaco e chissà cos’altro. Certamente vezzi tipici da agone politico, ma una riflessione più approfondita si fa inevitabile se intendiamo relazionarci alla Repubblica Ceca e non altri paesi dell’area. Ovvero una nazione vecchia nemmeno cento anni, parte dei quali trascorsi sotto le aliene grinfie naziste o il potere comunista manovrato dal Cremlino. In altre parole -sostiene la Šafaříková- non ci sarebbe stato il tempo necessario tra Boemia e Moravia per elaborare una teoria di specifiche nazionali radicata e condivisibile, e incitare a esse risulta talvolta piuttosto artificioso.
In riferimento a Praga si tratterebbe di chiamare a raccolta la popolazione attorno una scatola che, sebbene intrigantemente decorata, scopriamo vuota all’atto della apertura.
Che poi è diverso per gli slovacchi perché loro hanno la faccenda degli ungheresi a due passi e la relativa tensione nazionale a unirli. Oppure anni luce dai polacchi perché loro hanno la religione e un concreto senso di appartenenza nazionale. Viceversa in Repubblica Ceca non si riscontrerebbe un particolare impeto patriotico, i rapporti con i vicini sono mediamente tollerabili e trattasi di nazione tra le più laiche del globo. Nessun alcolico davanti il quale stringersi a tavola e non tiriamo in ballo la birra perché comunque resta un comparto settoriale («Beer? Yes. We are the number one beer drinkers in the world per capita, but that’s more of a male thing», comunica la Šafaříková.) Eppure a pensarci bene la scatola vuota potrebbe essere riempita con materiale assai più prezioso di un liquore o la stoffa dei vessilli: ora siamo liberi e sicuri. Integrati e protetti. Nessuna dittatura grava sulle nostre teste o scarse paiono le possibilità di trovarsi davanti al naso carri armati cigolanti lungo le strade delle principali città. In effetti mica male. Però basta questo? Risposta: no. C’è altro? Risposta: sì. Così ecco una breve lista di «cose» ceche delle quali andare fieri e inneggiare se messi in situazione di crisi.
a. Banale però in primis troviamo Havel. Nonostante le divisioni e l’infinto dibattito, un’icona capace di ispirare numerosi politici e pensatori del mondo intero. Al netto di Klaus o quei buchi nella tappezzeria che avrebbe trovato ovunque insediandosi al Castello nel duemilatré.
b. Inoltre c’è quel fatto che la Repubblica Ceca sarebbe l’unica nazione euro-atlantica (e una delle tre al mondo assieme all’isola di Nauru e le Marshall) che permette l’anonimato nella proprietà di una società. Aspetto in fase di revisione ma tutt’ora in essere e forse correlato alla connaturata tendenza a reinterpretare le regole più diffuse avviandosi per conto proprio. Chissà. Ad ogni modo numerosi regimi totalitari nel passato non hanno propriamente gradito questo esprit locale di differenziazione, che tuttavia resiste indomito.
c. Ancora converrebbe girare un film porno in Repubblica Ceca («I’ve already mentioned beer, but a porn industry is right up there») e (d.) nonostante la posizione geografica che male sembra sposarsi con l’attività, la Repubblica Ceca si conferma uno dei maggiori esportatori di pesci tropicali. Trattasi di gentilissima premura e indescrivibile la gioia derivante l’aiutare milioni di persone a creare il proprio paradiso domestico di silenziose e coloratissime creature. Spiegazione per il trend da trovare anche qui in epoca comunista, ovvero quando era saggio dedicarsi ad attività non ideologiche come la raccolta di funghi, le passeggiate nei boschi o la fauna marina.
e. Ma soprattutto la cultura. Splendidamente ricca e variegata per una nazione di soli dieci milioni di abitanti. Già tante volte in queste pagine abbiamo scritto di Kafka, Hrabal, Brod, Kundera, Menzel o Kupka e non serve tornarci.
Punti valevoli e condivisibili sebbene la signora Šafaříková sembra dimenticarne uno. Quello magari centrale attorno cui coalizzarsi e mai da riporre. Forse perché inquadrare le cose standoci immersi fino al collo è arte complessa e scivolosa eppure essenziale. Cioè l’umorismo, l’autoironia e la leggerezza: dal mondo di Švejk all’immaginario Jára Cimrman arrivando fino a David Černý, impossibile stabilire nel corso della storia quanti cechi abbia salvato un simile modo di porsi, al tempo stesso dissacrante, vitale e illuminato.
P.s. Recente (2012) l’uscita di Fatti il tuo paradiso, riuscitissimo saggio sull’umorismo ceco. Per Nottetempo lo ha scritto Mariusz Szczygieł, che è polacco.
Foto: Wikipedia.