Lo sappiamo tuttavia, i Coen preferiscono poggiarsi sull'arrovellamento, tendenzialmente lo fanno per sadismo verso lo spettatore ma spesso anche per condividere interrogativi ai quali neppure loro sono in grado di dare risposte esaustive e, portandoli a galla, confidano in una messa a fuoco maggiore, magari favorita proprio dall'impossibilità di farli cadere nuovamente a fondo. Allora rieccoli a parlare di vita, anzi, di futuro, pianificazione e percorsi, con la parabola di un cantate folk, appunto, condannato a mordersi la coda come un gatto (e uno se lo porta anche dietro) da quando il suicidio del suo partner lo ha costretto a reinventarsi solista ma meno affermato, quindi spiantato. La vita di Davis è come un loop, come un ritornello, che a sentirlo la prima volta è apprezzabile ma che a forza di ribadirsi comincia a diventare stancante, triste, quasi insopportabile. Ed è così persino per la sceneggiatura che lo definisce, la quale, nel caso specifico, appare esattamente in sincrono con il discorso che il discografico di Chicago fa all'attore Oscar Isaac alla fine del suo lungo, paradossale viaggio avvenuto tra compagni sconosciuti e autostop.
Sta di fatto che, in più di un occasione, "A Proposito di Davis" conquista pienamente, rapisce, coinvolge e trascina con dialoghi e canzoni accattivanti ed intense. Ogni tanto si lascia andare ad assoli un po' troppo lunghi, che si fanno apprezzare ma poi distraggono dalla densità del testo che, diciamolo, pur non essendo molto commerciale e dinamico, non dispiace affatto.
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