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Una caratteristica che i due fratelli sono bravi a depistare collegandone la possibile prova - "Inside Llewyn Davis" è il titolo più che sibillino a riguardo- non alla dichiarazione d'intenti che abbiamo appena illustrato, ma piuttosto all'omonima intestazione del disco che Davis propone a Bud Grossmann, il produttore che lo dovrebbe ingaggiare. Ed invece forti di un impianto musicale come al solito curatissimo (T Bone Burnett alla cabina di comando), i registi del Missesota si divertono a sabotare i codici del biopic - ed il realismo del racconto prima di tutto- con una serie di trovate che appartengono di diritto al linguaggio più intimo dell'animo umano. Come quella di presentare una fotografia desaturata e poi manipolata al computer, dominata di neri e di grigi, come nero e grigio è l'umore di un' esistenza che stenta a sopravvivere. Oppure di deformare lo spazio che permette di accedere al meritato riposo, stringendo a piu' non posso i corridoi che consentono a Llewyn di accedere al meritato riposo nel divano che amici e conoscenti gli mettono a disposizione, e che nel film diventano la proiezione di una difficoltà che insegue Davis fin nelle sue più basiche necessità.
Per non parlare del clima metereologico, freddo ed ostile come lo sono i rapporti interpersonali che il film mette in scena attraverso le divergenze sentimentali e lavorative che affliggono il viaggio esistenziale di Llewyn. Umanesimo espressionista che dal punto di vista stilistico segna un ritorno ad un cinema più semplice (Fargo), con movimenti di macchina quasi assenti che si giustificano con la stasi psicologica del protagonista, e virtuosismi azzerati dall'urgenza di concentrare l'attenzione sulla condizione del personaggio. Un minimalismo che si addice allo spirito dei tempi, e che restituisce il cinema dei Coen ad un livello di eccellenza che solo la bontà del cartellone del festival di Cannes prima, e la politica industriale dei giurati dell'Accademy poi, ne hanno impedito la giusta celebrazione.
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