A proposito di “Mio padre ha mani grandi”, racconto di Pier Paolo Sciola: alcune notazioni critiche di Silvia Longo*

Creato il 20 maggio 2013 da Viadellebelledonne

Mio padre ha mani grandi, con il suo stile fuori dell’ordinario, smentisce uno dei luoghi comuni che più detesto: quello per cui tutto è già stato detto, come si fa a scrivere qualcosa di nuovo?
Per questo gli sono grata. A un racconto. Come a chi è capace di sorprendermi ancora, se mi spiego, di schiudermi percorsi inediti.
Per analizzare a fondo questo testo, si dovrebbe parlare diffusamente della sua costruzione in sequenze brevi e collegate tra loro − come in cordata di pensieri associativi − da un filo più logico che temporale.
Del suo rappresentarsi, dall’inizio alla fine, sullo scenario della coscienza per soggettivare la vicenda dal punto di vista dell’io narrante, eppure riuscendo a coinvolgere con prepotenza il lettore (l’ultima frase chiude la storia e apre dibattito etico) .
Delle metafore (le operazioni igieniche del padre compiute di nascosto, a suo parere, con la mano a museruola), dei correlativi oggettivi (l’anello, i palloni a rimbalzare…), dei paesaggi usati a livello simbolico (Gli alberi sono eucalipti sottili, radi, di pochi anni. Hanno buccia di serpente) e, nel contempo, a smorzare il livello di tensione emotiva. Dell’equilibrio nel narrare e di quant’altro.
Ma vorrei parlare un attimo dello stile, della scelta del tono, dell’uso della lingua.
Bene, a me pare che questo testo sia la prova vivente che, da un numero limitato di parole e di regole grammaticali e sintattiche, possa scaturire un’infinità di espressioni linguistiche.
Vivente, ho scritto e non a caso. Perché l’autore ha saputo passare dalla mera conoscenza del mezzo linguistico a un uso del tutto personale di esso. Riuscendo a dare vita e movimento alle frasi. Traducendo la semplice esposizione di eventi in narrazione vera e propria. Rafforzando, con sequenze di parole incastrate ad arte l’una con l’altra e nel contesto della vicenda intera, gli stati emotivi dell’io narrante.
Mi riferisco, in particolare, alle frasi brevi e spezzate, a volte prima del compimento, come: Mamma in ospedale. Non ricordo per. Ricoverata di non so. Davvero adesso non mi viene. Forse una depressione, o una specie di.
È la descrizione di un ricordo. O meglio, di una rimozione.
L’efficacia, dal mio punto di vista, è notevole. Vuoi per eufonia ritmica, vuoi per assonanza con vissuti emotivi del lettore.
Voglio dire: quando si ricorda, non tutto appare chiaro; piccoli passi di memoria, uno avanti uno indietro, anche dolorosi; più comodo sorvolare, magari, per non rivoltarsi nel male o semplicemente perché altra è la mèta.
Ecco, un modo di esprimersi del genere, a morsi mi viene voglia di dire, funziona bene in questi casi. Obbligando, per un verso, a maggiore attenzione nella lettura – sfumature da cogliere − e permettendo d’altro canto immedesimazione più profonda nei personaggi.
Ci sono, poi, dei giochini deliziosi di parole, di quelli che innescano piacere raffinato (sempre che, visto l’argomento trattato, si riesca a rimanere distaccati emotivamente dal senso). In quanto ad anni e In quanto a danni, per esempio. Della serie: ti sposto una lettera e guarda un po’ che succede. E tutta la parte in cui la protagonista prende confidenza con il termine incesto e, come ossessionata, vede metafore della cosa ovunque intorno a sé. Allucinazione masticata nella solitudine più totale, nel silenzio di due parentesi tonde.
Ancora: spostamento di vocaboli all’interno di una frase a vantaggio di musicalità inedita e semantica, finalizzata a giungere, per un verso o l’altro, dritta dritta al cuore del senso e del lettore: Felice utile di stare.
La rinuncia agli avverbi, sostituiti con aggettivi: Quando ti dicono scientifico una cosa che ti fanno.
L’eliminazione di elementi di punteggiatura, articoli e preposizioni per ampliare respiro tutto d’un fiato: Navigava dentro la fiducia data per scontata, come in bolla d’acqua assenza vento di bonaccia.
L’autore confida in un minimo di intuito da parte del lettore, insomma, e nella somma di conoscenze linguistiche comuni, per alleggerire strutture sintattiche. Si conta sulla sua fiducia, sul suo lasciarsi andare, trasportato da emozioni primarie o secondarie, legate alle vicende narrate e alla suggestione (anche sonora) della scrittura. E questo altro non è che il patto implicito tra chi scrive e chi legge. La tensione erotica del darsi a vicenda.

*Scrittrice di Alba, di recente in Longanesi con il romanzo “Il tempo tagliato”



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