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L'apatia, intesa che atteggiamento dello spirito, e' uno dei tratti tipici
della modernità. Ogni giorno viene nutrita, vezzeggiata, pure subdolamente stigmatizzata, al solo scopo di rendercela ancora più cara, fino al punto in cui (magari ci siamo già, forse) non sappiamo nemmeno più di patirla, tanto si confonde con noi stessi. Le prime a farne le spese di questa delega in bianco del pensiero critico su scala planetaria, sono le idee. Soprattutto quelle ponderate e ben argomentate, quelle originali e rischiose. Quelle che punzecchiano la superficie compatta
del luogo comune, della leggenda più o meno grande che ognuno elabora su se
stesso, dei miti un tanto al chilo: tutti inseparabili compagni di viaggio di
madama apatia, tra l'altro. Idee la cui difesa spesso e volentieri solitaria,
spesso e molto meno volentieri intrisa di sofferenza, implica l'ostilità, la
denigrazione, l'emarginazione.
Si dirà: che c'entra questa roba con "Moneyball"/"L'arte di vincere"' il film
sul baseball con uno dei ganzi più amati al mondo come Brad Pitt ? C'entra
eccome. In primis proprio come antidoto all'apatia, all'ostinazione con cui si
rinuncia a produrre e a sostenere idee. E in maniera non marginale perché -
come sovente accade nei film americani incentrati su uno sport, in specie se di
squadra - "Moneyball", tratto dal libro di Michael Lewis "Moneyball, the art of
winning an unfair game", non e' un film "sul" baseball ma un racconto in cui il
baseball viene utilizzato come apriscatole per ragionare intorno ad una mezza
dozzina di altre cose, tipo il bluff tragicomico insito nella stessa nozione di
"sogno americano", per dire. O i concetti di "vincente" e "perdente" solo ad
una prima occhiata totalmente ambivalenti. O ancora, un rapporto col denaro per
cui non e' così scontato che "lui" abbia sempre ragione (e questo in un paese
come gli Stati Uniti e' già una mezza istigazione a delinquere). E, all'ultimo,
a condire ogni pietanza, un porre l'accento su un fare ironico e distaccato
verso il mondo e gli uomini che aiuta - nella fragilità e più spesso nella
desolazione degli affetti e dei rapporti - ad elaborare valutazioni lucide su
se stessi, sulle proprie ambizioni, così come sulle mancanze, sulle mediocrità:
senza rivelazioni trionfalistiche o approdi a chissà quali consapevolezze ma
pure senza eccessivi patemi o disperazioni a cui non si possa mettere una toppa
con una mezza risata e un po' di vera buona volontà.
L'arma utilizzata in "Moneyball" - tipico film dalla regia mimetica in cui,
come si dice, sembra-non-accadere-niente - dagli sceneggiatori Steve Zaillan e
soprattutto Aaron Sorkin ("Codice d'onore", "La guerra di Charlie Wilson",
"Social network"), vecchio marpione della sottrazione, delle sfumature che
richiedono presenza di spirito, delle retoriche blandite e sottilmente
ridicolizzate, dei rimandi sottesi e degli incastri finto casuali, e' una
specie di sardonico understatement che avvolge un po' ogni cosa: le riunioni
per decidere il nuovo assetto della squadra, come le attese in casa della ex
per una figlia adolescente da trastullare nel giorno stabilito dal giudice e
che non arriva mai. Le interminabili telefonate ai pezzi grossi della altre
squadre per trattare l'ingaggio o la cessione di un atleta e le solitarie fughe
in autostrada il giorno delle partite decisive.
Un gigantesco sottotono che, come un'invisibile mano comprensiva, spinge Billy
Beane (il general manager interpretato da Pitt) a seguire un suo piano di
ricostruzione degli Oakland Athletics - squadra da sempre abbonata al
galleggiamento nelle parti basse delle classifiche - da tutti considerato
demenziale e autolesionista, spalleggiato da un neolaureato a Yale ciccione
(Peter Brand/Jonah Hill) venuto su a pane e statistiche, con particolare
predilezione per i giocatori reduci da un qualche tipo di infortunio o male o
sotto utilizzati.
Tutto senza la voglia di rivendicare alcunché, senza la pretesa di avere
scoperto o inventato qualcosa ma unicamente per non arrendersi alla
consuetudine delle idee comode (l'apatia, ricordate ?) e vedere se la propria,
d'idea - cambiare un fuoriclasse con tre, quattro sostituti di livello più
basso, messi in campo in modo da dare il meglio di quello che hanno - funziona,
e non mollarla più solo perché il "senso comune", senza mai averla messa alla
prova, sia detto en passant, ha sentenziato che e' sballata.
Beane/Pitt, ingurgitando uno snack dopo l'altro, una bibita dopo l'altra,
quasi mai alzando la voce (il divo centra un altro ruolo sornione e laconico a
riprova che il bel grugno puoi anche usarlo oltre che metterlo in posa),
assieme al suo assistente accolto il primo giorno dal più classico dei: "E
questo chi cazzo e' ?", stravolge la squadra e, questo si che fa ridere,
comincia a vincere, al punto da stabilire il primato di venti vittorie
consecutive, record dell'American League.
Manco a dirlo, il sogno sarà breve. La squadra franerà negli scontri a seguire
ma Beane adesso ha capito che " fallimento" e' solo una parola facile da usare,
spesso a rimorchio di quell'altra di nome " autocommiserazione". O uno stato
d'animo vissuto fin troppo passivamente, soprattutto se non si hanno idee nella
testa e la tranquilla caparbietà di dar loro una forma, nonché una possibilità
di realizzarsi.
In questo senso, ciò che si ridimensiona sul serio - ed e' un paradosso solo
in apparenza - e' la sfiancante prosopopea della "vittoria", dei "vincenti",
dei "numeri uno", chissà quante volte issati alla gloria da una strana
giravolta del caso. E l'ossessione del successo, del denaro, ora e' lecito
guardarle con altri occhi anche in America (Beane rifiuterà un ingaggio
milionario a Boston), inducendo persino un sorriso, quando la voglia che spinge
ad agire e' quella di far lavorare il pensiero divertendosi, quando e' chiaro
che l'unica partita sensata da giocare e' quella per diventare se stessi.
The FisherKing
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