Magazine Cinema
A proposito di: "Only God forgives", abbecedario della fine.
Creato il 08 giugno 2013 da VeripaccheriNei "Frammenti postumi" Nietzsche riflettendo, tra l'altro, sulle linee guida del pensiero occidentale che sostanziano la descrizione del mondo da lui configurato, osserva il progressivo emergere di una presenza che definisce "la più inquietante di tutte" - quella del nichilismo - giungendo ad una constatazione (altrettanto inquietante): "Manca il fine", dice, e sembra di sentirlo sussurrare lento, "manca la risposta al ". Subito un sapido paradosso: per un cinema vistoso quanto scostante, spesso additato di una nemmeno tanto occulta combutta col nichilismo di cui sopra, come quello del nuovo oggetto di culto Nicolas Winding Refn, la visione di "OGf" prefigura addirittura l'eventualità di una semplice quanto netta risposta: da qui non si torna indietro (o non si esce ma cambia poco). E "qui" e' la materializzazione della somma distorta e stenotica degi sbattimenti iper-cinetici dei vari "Pusher"; dei silenzi ancestrali e arcani e delle punizioni rituali/simboliche di "Walhalla rising"; degli istrionismi teatral muscolari, fluorescenti e criptogay di "Bronson": della tenerezza subliminale di "Drive". "Qui" e' la nana bianca super compressa (o, se vogliamo, lo sciacquone) di un'idea di Cinema e delle sue suggestioni - dal poliziesco americano anni '70 ai labirinti ignoti, angoli residuali e penombre di città impossibili tra Ballard e Lynch; dalla fascinazione per gli spaghetti-western (chiaro il riferimento al Colizzi/Hill/Spencer di "Dio perdona... io no !", 1967) ai debiti stilistici verso una matrice "orientale" per le geometrie della messinscena e per la raffigurazione della violenza; dal grottesco triste e dalla grigia mestizia delle "kitchen sink drama" alle sospensioni "incongruenti" dei karaoke alla saccarina - a cui OGf" intima di variare l'orizzonte degli eventi, la porta abisso-nero cornice di un'inquadratura ultima affogata in un unico esausto globulo rosso di pareti, fondali, riflessi, che ripugna e attrae irresistibilmente vibrando sulle frequenze della fine - della morte - come impossibilita' di gettare uno sguardo se non per essere respinti al di qua della soglia e "meritare" il passaggio solo assecondando i dettami del martirio, viatico (e approdo suo malgrado del nichilismo), per mutare una volta per tutte stato (nel caso, forma/Cinema) e così (ri)deflagrare/reagire in una serie di spasmi nuovi, in una nuova vita, se e' vero il verso di Holderlin "Ma la' dove c'e il pericolo cresce/ anche ciò che salva" e il fatto che l'unica alternativa sarebbe la fiacca ripetizione dell'uguale.
"OGf", nella prospettiva della fine - della sua propria fine - recupera e ricombina in egual dosi di abilita' e furbizia gran parte degli snodi linguistici ed estetici che avevano caratterizzato il Cinema che lo ha prodotto come voce espressiva (il parossismo della violenza e la "necessita'" del sangue; l'inquadramento quasi marziale di parole e atteggiamenti; la saturazione cianotica dei cromatismi; le staticità oniriche e gl'intermezzi di una soavità sinistra; l'insopprimibile misoginia e una larvata ancorché diffusa rassegnazione all'impotenza; l'assenza di margine per distinguere l'esperienza umana da un mondo che quella stessa esperienza ha contribuito a rendere un luogo desolato e desacralizzato e dalla freddezza atona del denaro, attraverso la ricerca della prossimità e del contatto con l'altro ridotta a fremito sottocutaneo o affidata ad un'insistenza languida quanto meccanica dello sguardo) ma con un moto inerziale adesso decrescente, in una sorta di progressivo rallentamento della forza vitale/motrice delle immagini. Man mano che si "procede", cioè, la mdp lesina i suoi movimenti laterali, i suoi rari scatti e retrocede, alternando piani, isolando spazi il cui dinamismo e' frutto della profondità di campo e degli straniti spostamenti al suo interno, fino a consegnarsi immobile - il film si apre e si chiude su una tozza katana che attraversa lo schermo - alla lama che la libererà (?).
Bruciati i ponti alle spalle, cosa resta in "OGf" della brutalità sanguinolenta, dei bagliori di colore dei fiori o delle vetrine, degli arredamenti insulsi o posticci o patologicamente carichi, delle cupezze e delle lentezze minacciose ? Resta un tritume sfinito di accorgimenti retorici, brandelli dell'eternamente degradata immagine di noi stessi, di ciò che abbiamo fatto del nostro modo di vivere e dei nostri rapporti, affidati in toto all'amoralità tecnica delle cifre e dei profitti, oltre alla miserabile litania delle coazioni di sempre (miserabile per il suo implacabile ripresentarsi sotto forma di enigmi la cui soluzione e' ogni volta demandata ad un provvidenziale intervento esterno o di alibi per qualunque abiezione): legami contorti - se non nessun legame - con l'altro sesso e col proprio corpo (sempre in apparenza tonico come impone l'atletismo giovanilistico del "primo mondo" ma che sembra non rispondere più a nessuno stimolo), da complicare ulteriormente con complessi edipici latenti/irrisolti/rimossi e spettri incestuosi (Kristin Scott Thomas, una delle quintessenze del piglio aristocratico, qui arancio/cremisi laccata, capigliatura platino modello Donatella Versace, abiti pacchiani, super boss del narcotraffico, Medea morbosa e sprezzante, sospesa in una sola favolosa manciata di fotogrammi in posa plastica a scimmiottare e pervertire al tempo l'eterea grazia delle "muse" di Mucha, in grado di apostrofare l'accompagnatrice/pseudo fidanzata del figlio minore Gosling con un "How many cocks can you entertain in that cum dumpster of yours ?", la cui interpretazione, per ovvi motivi, lasciamo ai più ardimentosi, e che non arretra neanche di fronte alla possibilità di distribuire piacevolezze assortite intorno alla consistenza dei "membri" di famiglia); un'afasia prossima all'autismo e all'abbrutimento (Gosling, grosso beagle semi catatonico si aggira per la pellicola e pronuncia in tutto una cinquantina di parole, non necessariamente sensate; il fratello maggiore stupra e ammazza una ragazzina senza fare una piega, quasi controvoglia, e pressoché allo stesso modo si lascia massacrare dal di lei padre), la cui impassibilità e' conseguenza diretta della passività e della protervia, della pretesa arrogante e omicida di partecipare al mondo senza conoscerlo e senza frequentarlo ma comprandolo, possedendolo - cioè, meramente, abusandone - e che, quindi, nulla può contro la millimetrica imperturbabilità di un'autorità corrotta ma vigile (Chang, l'ufficiale di polizia, maestro di torture e inesorabile spadaccino), implacabile nel ridefinire e, a suo modo, ribadire la necessita' del limite, avvertita, ma più di ogni altra cosa ancora pronta nell'agire, e a cui quella non può che offrirsi nuda e vile, immeritevole, appunto, di perdono.
Con "OGf", insomma, il danese-americano Refn si caccia da solo nella buca. Tutto da vedere - e la cosa si prospetta interessante - come cercherà di venirne fuori.
TFK
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