Dopo aver accompagnato la classe di Emma, una terza elementare, al museo di storia naturale, martedì mattina, sono tornata a casa stravolta. Faccio fatica, lo ammetto, a stare con 17 bambini superagitati in un ambiente pieno di scheletri e di serpenti sotto spirito, per non parlare del viaggio in pulmino, che mi fa venire una nausea indescrivibile.Sono arrivata a casa che era mezzogiorno passato. Sono riuscita a lavorare un quarto d’ora, prima che la scuola di Emma chiamasse per dirmi che aveva 38 di febbre. Ho chiuso il computer, e ancora con la nausea del pulmino e con un rinnovato giramento di coglioni, sono andata a prenderla.Due giorni di febbre, per lei e di prigionia per me, che non ho potuto far molto: abbiamo giocato a cose, città (ho vinto io: vinco sempre io), abbiamo giocato a Shanghai (ha vinto lei, perché ha barato), abbiamo letto, abbiamo chiacchierato, abbiamo fatto dei gran disegni e un bigliettino di auguri per il nostro vicino, Ray, che ieri ha compiuto 65 anni. Ogni tanto andavo nel mio ufficio per cercare di lavorare, ma me la ritrovavo sempre dietro, come un’ombra, come un cagnolino annoiato.A proposito di prigionia, la sera prima avevo visto il film The Room, che mi ha letteralmente disintegrato: è la storia di una giovane donna, che sette anni prima era stata rapita e rinchiusa in un piccolo capannone dietro la casa del rapitore, che ogni tanto va da lei, le porta da mangiare e la violenta. In questi anni, la ragazza, che i genitori cercano disperatamente, ha un figlio, che vive con lei in questo spazio piccolissimo e atroce.Il rapporto tra la giovane madre e il figlio è la cosa che mi ha più distrutto, perché lei mette da parte il suo orrore e rende la situazione ‘normale’ per il piccolo, che non ha idea che fuori dalla loro prigione esista un mondo vero. Per lui esiste solo lei, e ‘old Nick’, il loro sequestratore. Mi ha fatto molto pensare all’arte di essere madre, e alla difficoltà di rendere l’assurdo normalità. Ci sono, nel mondo, realtà inconcepibili, estreme e di una violenza disumana, e quando un bambino ci nasce non si pone il problema se siano giuste o sbagliate. Sono e basta. Penso a chi nasce in estrema povertà, o in un Paese che viene costantemente bombardato, per esempio. Qual è in quel caso il ruolo di una mamma, di un genitore? Forse quello di cercare anche nell’orrore una specie di tranquillità, quasi di felicità? Forse. Poi inevitabilmente penso a quanto noi sottovalutiamo i nostri infiniti privilegi, a come siamo viziati, a come sia facile lamentarci perché la connessione wi-fi è lenta. Ecco, forse questo è l’aspetto del film che mi ha fatto più piangere.Trovarmi da sola con Emma malata per due giorni e dover ridurre la mia piccola mole di lavoro (già di per sé estremamente privilegiato, dato che per mestiere scrivo e non avvito bulloni in una fabbrica) per una volta mi ha pesato molto meno, perché alla fine passare un paio di giorni a giocare e a coccolarsi sul divano è forse il privilegio più grosso e quello meno considerato.