Il bizzarro, il ridicolo, il truce, l'abbietto, il deforme, sono categorie dell'esperienza umana. Sono sempre esistite. Esisteranno sempre. Ciò che ha inscritto - una volta per tutte ? - queste categorie nell'ambito dell'"osceno" e' stata l'accelerazione senza controllo imposta loro dalla facoltà pressoché infinita di riproduzione e d'accesso offerta dall'azione combinata di innovazione tecnologica e ricerca esasperata di convertire qualunque espressione - fisica, psicologica, ideale, culturale, ludica, onirica - in merce. Korine e' una vecchia volpe, a dire che sovente riesce a giocare con abilita' su quella sottilissima linea che demarca l'interesse per la descrizione di un fenomeno e il compiacimento dello stesso. Forza, cioè, sempre, l'altalena pericolosa tra "meraviglia" - per quanto drammatica - e "osceno". Pero' sa di che parla. Sin dagli esordi, infatti. - e "Gummo" del 1997, per tanti aspetti, può considerarsi il manifesto di una poetica - era chiaro come non fosse possibile tentare di penetrare il mistero della modernità e della sua "oscenità" se non rovistando la' dove nessuno o pochi avevano voglia di guardare, ovvero fra il tritume, la poltiglia dei suoi scarti - materiali e umani - fra gl'incubi e le allucinazioni più vere del vero indotte dalla spropositata quantità di oggetti, di cibo, di immagini e di stimoli frequentati e assorbiti di continuo, ogni giorno, "per sempre" verrebbe da dire, con raro e sbadato costrutto, con scarse o nulle difese, a partire dalle conseguenze che tutto ciò produceva in specie sulle generazioni under-20, individui proverbialmente al centro di mutazioni spesso complicate, di fatto iper-sensibili alle sollecitazioni di più immediata fruizione provenienti da ogni campo dell'azione umana: la moda, la musica, il cinema, il sesso, le droghe. E su tutto, in una società come la nostra, a far da mastice in teoria indistruttibile, il denaro.
Le "spring breakers" di Korine, allora, "white trash" da manuale: vocine petulanti e acufeniche, come cubetti di ghiaccio a mollo in un cocktail dozzinale; co-artefici e vittime del cretinismo di massa; bamboline già semi-plastificate dalla mega macchina industriale (la Hudgens e la Gomez per anni in quota Disney per il, si presume, sommo gaudio di Korine stesso; un'altra, Rachel, addirittura sua moglie); perennemente in bikini, sempre ad un passo dal praticare o subire un abuso. Ridacchiano, sculettano, rapinano un "diner" "come fosse un cazzo di film o un videogame" per scappare da un posto in cui "ci si sveglia ogni mattina nello stesso letto e non succede niente" e regalarsi uno spicchio di gioia che "vorrei non finisse mai". Tutto in primo e primissimo piano. Tutto sgargiante e colorato fino alla nausea (passamontagna rosa e top psichedelici). Sopra ogni altra cosa, tutto in vista, sempre. Tutto in scena, contemporaneamente. Niente che resti sottinteso. Da intuire, da immaginare. La modernità ("oscena") che si produce, accade, si divora, evacua e ricomincia. Ecco, forse, il fulcro del cinema di Korine: esso riesce comodamente ad oscillare - con l'osceno che occhieggia la' in fondo, da qualche parte - sul vecchio adagio per cui "il suo limite e' anche la sua forza". Ripetitività; riproposizione di scene variate per qualche singola inquadratura e sfasate nel tempo; stasi e accelerazioni improvvise; ralenti e disarticolazioni cromatiche; una certa sostanziale inconsistenza narrativa, che, applicate al cuore "osceno" del nostro sistema, il "produci-consuma-crepa" di ferrettiana memoria, generano una saturazione e una frattura profonda al di la' dei meriti e dei demeriti delle singole pellicole. Qualcosa che può essere avvicinato alle intuizioni "terminali" dei nostri Cipri' e Maresco; agli esperimenti estremi di Tsukamoto (il suo primo "Tetsuo" e' del 1989: ancora gli anni '80); a certi incanti herzoghiani come a talune aberrazioni di Lynch e di Cronenberg: tutto pero' giocato in superficie ("La superficie, la superficie, la superficie" ripeteva Patrick Bateman e non era una filastrocca), frullato e riproposto senza sosta, appunto perché l'ingranaggio in cui siamo immersi mani e piedi non può fermarsi ma solo superfetare. Con al termine la domanda più angosciosa: "American idiocy, "American idiot", "American psyco", "Spring breakers"; e adesso ?
Korine non da risposte. Capovolge l'inquadratura. Ciò che esiste e' ciò che si vede e viceversa. Se non bisogna andare tanto lontano per trovare l'inferno, perché e' sempre stato qui, allora anche il paradiso deve essere nei paraggi. Ma se tale inferno e' nato dal rifiuto di un paradiso precedente - illusorio o frustrante - un rifiuto di segno uguale e contrario, un sovvertimento radicale, sarà necessario per scalzarlo.
TFK
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