I guai di Telecom Italia iniziano da molto lontano, nonostante le accuse e gli strepiti dei soliti beninformati e una certa retorica revanscista che fa della non-italianità il problema della vendita della società leader delle comunicazioni in Italia. Non è questo il punto, come non lo è tuonare sul fallimento delle privatizzazioni e la necessità di un intervento dell’authority – il cui ruolo non è (né dev’essere) certo quello di proibire cambi di proprietà nel mercato delle telecomunicazioni.
La privatizzazione di Telecom è fallita, questo è sicuro, ma per colpa di una certa connivenza tra politica e ceti dirigenti che ha fatto segnare risultati analoghi in altri casi simili (uno su tutti, quello di Alitalia). Telecom Italia venne privatizzata nel 1997, durante il governo Prodi. Nel 1999 l’imprenditore Roberto Colaninno ha guidato una scalata (definita «coraggiosa» dall’allora premier Massimo D’Alema) che l’ha portato, sfruttando la leva del debito, a controllare le quote di maggioranza della società. In un commento di quei giorni, il Financial Times chiamò la vicenda «una rapina in pieno giorno», riferendosi alle pratiche a suo dire poco chiare con cui Colaninno, autodefinitosi «amico di D’Alema», riuscì a perfezionare la scalata.
Da Repubblica del 30 settembre 1999:
“Una rapina in pieno giorno”. è il drastico giudizio del quotidiano britannico Financial Times, che ha commentato ieri nella “Lex Column” le vicende della telefonia italiana. Sotto il titolo “Abuso di potere”, il giornale finanziario britannico premette che “gli azionisti di Telecom Italia possono dare la colpa solo a se stessi. Erano stati avvertiti diverse volte che Olivetti avrebbe con ogni probabilità abusato degli azionisti di minoranza, una volta vinta la battaglia”. Il quotidiano contesta in particolare il concambio stabilito per lo scambio azionario Telecom-Tecnost, definendolo “grottescamente ingiusto”. Tecnost è infatti “un guscio vuoto che contiene solo la propria quota in Telecom Italia ed una montagna di debiti”.
Un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 12 agosto del 2000 provò a far luce sulla vicenda:
E pensare che all’ inizio, quando l’ ipotesi di una scalata ostile a Telecom aveva cominciato a serpeggiare, D’ Alema l’ aveva accolta con diffidenza. Anche perché con i soci importanti del nocciolo duro di azioni di Telecom, a cominciare dalla Ifil, i rapporti non erano mai stati cattivi. Tutt’ altro. Inoltre era stato il suo governo a promuovere il passaggio di Franco Bernabè dal timone dell’ Eni a quello di Telecom Italia. Così chi conosce bene i retroscena della vicenda giura che c’ era voluta tutta la pazienza dell’ allora ministro dell’ Industria Pierluigi Bersani per superare quella diffidenza. Colaninno aveva fatto il resto. Andare a palazzo Chigi a informare il presidente del Consiglio della sua intenzione di scalare una società appena privatizzata ma di cui il governo aveva ancora in mano una golden share era stato qualche cosa di più che un puro atto di cortesia. E D’ Alema non aveva mancato di apprezzare. Tanto più che si trattava di un’ operazione progettata con tutti i crismi. [...] Nel frattempo, dopo l’ incontro ravvicinato con D’ Alema, Colaninno si era fatto molti altri amici. Tutta la cosiddetta «finanza rossa» aveva cominciato a guardarlo come un amico. Cioè, compagno d’ affari. L’amministratore delegato dell’ Unipol, Giovanni Consorte, manager sbocciato dal Pci bolognese, legatissimo a Bersani, investì 55 miliardi per entrare nel capitale della Bell, holding lussemburghese azionista dell’ Olivetti, la società di Colaninno protagonista del take over. In cambio la Hopa di Emilio Gnutti, socio di Colaninno, rilevò il 9% dell’ Unipol. Ma insieme a Mediobanca, nel nocciolo duro dell’ Olivetti, dopo aver messo a disposizione di Colaninno 2 mila miliardi per la scalata, entrò anche il Monte dei Paschi di Siena, istituto storicamente considerato vicino ai Ds.
Come sappiamo, negli anni a venire l’azienda venne rilevata prima da Marco Tronchetti Provera e più recentemente, già in crisi di debito, affidata alle “banche di sistema” della finanziaria Telco, di cui oggi Telefonica ha acquistato la maggioranza delle azioni. Suona strano, ad ogni modo, leggere che molti figli e figliocci politici di alcuni dei protagonisti del primo disastro di Telecom – quello che ha dato la stura a tutti gli altri, per inciso – si sentano di dover ammonire le coscienze e preoccuparsi di indicare i colpevoli della vendita. Protagonisti che, peraltro, sono rimasti in sella alle loro poltrone e – dimessi i panni degli appassionati di scalate e alpinismo - oggi dicono di stare «con gli operai» e condannano Marchionne e i legami col mondo della finanza.
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