A reti unificate

Creato il 08 maggio 2012 da Povna @povna

A reti unificate, oggi, la ‘povna aveva pensato di parlare di molte cose.
Le sarebbe piaciuto riprendere la storia di alcune famose liste (per esempio, di Silla o di Schindler), e raccontare i molti e vari paralleli che hanno fatto in Appennino i suoi bravi Merry Men).
Le sarebbe piaciuto parlare di quanto sia bello (e difficile) imparare a guardare i suoi simili con altri sguardi (e come sia questo, occhi e prospettive sghembe, a suo avviso, l’atout più prezioso dell’essere insegnanti – quello che, incessantemente, lei rincorre sempre e comunque a scuola).
Le sarebbe piaciuto riflettere sulle peculiarità di quelle classi che le hanno stregato il cuore più di sempre e con le quali non è stato necessariamente amore a prima vista (eh già, proprio con loro), ma che si sono distinte per una certa capacità di voler vedere il mondo, talvolta, come sembrava non potesse essere, un poco a testa in giù.
E allora arriverebbe a dire che uno dei loro tratti peculiari è stato, sempre, quello di saper condividere la leadership (tante voci, tante teste, a seconda di bisogni e circostanze – che significa poi avere anche la capacità di tornare sui propri passi, e saper declinare con matura consapevolezza le parole ‘regole’ e ‘diritti’: “ho sbagliato”, “è giusto”, “ho torto io”, “hai ragione tu”.
E inevitabilmente il suo ricordo ritornerebbe a quella non dimenticata lite furibonda (sì, sempre con loro): quando si guardarono negli occhi e quasi pensarono di non riconoscersi. E poi ci furono chiarimenti di poche parole e molti fatti: perché sulla volontà di affermarsi prevaleva (già allora, era novembre) uno smisurato amore.
Così il suo pensiero vagabondo arriverebbe fino a Calvin, e alla tesina (splendida) che sta facendo; e alla conversazione spezzettata che hanno avuto giusto ieri pomeriggio (la ‘povna appollaiata, come al solito, su un banco, lui che fotocopiava alcuni appunti e intanto accettava di condividere con lei il peso del mondo, almeno a parole, almeno per qualche ora). “Ne ho parlato anche con Viola, e ho dato una lettura veloce alla bibliografia critica: la tua idea è maledettamente bella, Calvin, e, per quel che ho visto, davvero originale”. “Secondo me è più sua che mia, professoressa, perché se non parlavo con lei certo non mi veniva nulla in mente” – ribatte lui subito.
La ‘povna sorride. Ma poi nemmeno qui si ferma, e la sua testa, ancora, corre altrove. Ritorna a Blowing in the Wind, così come lei e Corto l’hanno ascoltata, commentata, vissuta quotidianamente insieme all’Onda.
E allora, finalmente, è conscia che le sue frasi sono niente. E anche oggi, come allora, e come tutte le infinite volte che nella vita ha avuto un dubbio, tace e si fa da parte.
E (per un tempo limitato) lascia parlare lui; che le parole, davvero, le sa usare.

(La ‘povna con questo post partecipa all’iniziativa A reti unificate va / in onda la diversità. Chi avesse voglia di unirsi, può scrivere, partecipando al coro, sotto questo titolo. E, se ha voglia, può avvertire la ‘povna nei commenti, ché così si chiacchiera. Oppure prendere il banner. O, se preferisce, altrimenti anche no).

Noi vogliamo te
Chissà perché esistono i vizi, e chissà perché l’uomo nonostante sappia il logorio che provocano continua a farne uso, e chissà perché dal sole dell’Avana che scalda la terra umida delle piantagioni nasce il miglior tabacco del mondo, chissà perché… Pioveva di gran lena nel Kansas, e le gocce a contatto con l’abitazione di Tom davano vita a un ritmo cadenzato, quasi ipnotico. “Se non altro quei fottuti comunisti ne combinano una buona ogni tanto” – pensava seduto sul divano mentre fumava il suo sigaro e sorseggiava del whisky da un lungo bicchiere in vetro; la tv era sintonizzata su uno stupido show di sottofondo, ma la colonna sonora principale veniva dalla camera accanto: suo figlio aveva la radio accesa, da quest’ultima usciva una canzone ad armonica e chitarra: “Quante strade dovrà percorrere un uomo prima che tu possa chiamarlo uomo?”. Questo si chiedeva un molto più giovane Dylan in Blowing in the wind; quella canzone dava ai nervi a Tom, e gli dava ai nervi ancora di più che l’ascoltasse Hig: suo figlio non era un fricchettone nullafacente come tutti quegli “hippy” (o come si chiamavano) che hanno i capelli fino al sedere e manifestano contro la guerra, anche se ultimamente aveva dei dubbi su quello che poteva pensare Hig, sembrava che… In quel momento la porta si aprì, ne uscì suo figlio con aria stanca e si mise accanto a lui sul divano; sullo schermo appariva ora lo zio Sam: con il suo cappello e il suo sguardo inquisitore recitava nel suo silenzio, più eloquente di tante parole, “I want you”. Hig voleva arruolarsi, voleva dare una mano al suo paese, e suo padre ne era fiero; da quando era scomparsa sua madre qualche anno prima non parlavano molto, e la guerra nel Vietnam era un argomento che li trovava d’accordo, la cosa più giusta era arruolarsi, e uccidere quei maledetti Viet Cong. Hig aprì una birra e la sorseggiò con gusto…
… lo stesso gusto amaro che scosse Hap dalla testa ai piedi: era da quando aveva finito la scuola media che beveva birra, ma il primo sorso gli faceva sempre quello strano effetto di ribrezzo. Con la mano si lisciò i lunghi capelli neri e mentre guardava lo zio Sam sullo schermo della tv scosse la testa: come faceva a continuare quella guerra insensata, quello scempio? Spense con rabbia il televisore e gettò la birra a metà, accese la radio in cerca di qualche notizia bellica, ma trovò solo le ultime strofe della canzone di Dylan, “…quante morti ci vorranno prima che lui sappia che i morti sono troppi?”. Bella, troppo bella per pensare alla guerra, per questo alzò la musica e scacciò tutti i pensieri che una birra troppo amara gli aveva portato; la canzone durò solo pochi secondi per poi finire con dei brevi soffi di armonica. Peccato. Hap aveva poco più di vent’anni, anche se la barba folta e i lunghi capelli gliene davano quasi trenta, era molto magro e vestiva sempre con abiti larghi e molto vistosi, era quello che definivano “hippy”, quei coglioni buoni solo a protestare, che con la scusa di non approvare la guerra passava la giornata a bere e a fumare, ma lui non si preoccupava del giudizio della gente, gli piaceva essere così, l’emarginazione lo portava alla sua unicità: troppo tempo aveva passato a lavorare anonimamente in fabbrica, come una macchina, come un rifiuto della società. La sua unicità era la sua vita, e una volta trovata non voleva perderla; per questo adorava Dylan, perché era unico nel suo genere.
Il sole picchiava forte di quei tempi, ardeva sulla terra e sull’asfalto, rimbalzando le sue ombre luminose dappertutto; quel calore colpì anche la casa di Hap, illuminandone la finestra che dava proprio sul suo letto, il calore lo costrinse a alzarsi: si alzava così da qualche anno, la sveglia in casa sua aveva smesso di suonare da tanto tempo, e ora giaceva impolverata sulla più umile mensola della casa. Stette un po’ sul letto per poi prendere coraggio e alzarsi pigramente; da quell’angolazione la camera sembrava ancora più piccola di quanto non fosse già: la cosa non lo rattristava, anzi lo lasciava quasi del tutto indifferente; fatti questi pigri ma rapidi pensieri decise di avviarsi verso la doccia, per rinfrescarsi da quell’afa odiosa.
Hig era già alzato, ci teneva a tenersi in forma: la mattina prima che il sole sorgesse era già sveglio a fare esercizio. Quella mattina però era diverso, non era concentrato come al solito, continuava a suonargli in testa quella canzone sentita la sera prima, era una melodia ipnotica, che dava modo di spaziarci dentro, di entrarci e navigarci, nonostante il testo, potevi vederla e interpretarla come volevi. Questo fatto affascinava Hig, era tutta un’altra cosa rispetto alla musica classica che era solito ascoltare, aveva più energia, trasmetteva idee… Il rumore della maniglia lo fece tornare in sé, suo padre gli diede il buongiorno e si versò un’abbondante tazza di latte freddo, che scolò in pochi secondi; aveva il giornale in mano nel quale venivano citate le varie manifestazioni e quello che vi era successo; leggeva a voce alta con un accento scorbutico, quasi severo, contestando ogni singola parola e lettera dell’articolo scritto a grossi caratteri sul quotidiano. Suo figlio non lo ascoltava, erano sempre i soliti discorsi sulla politica, i comunisti, e da lì in poi nessuno ci capiva più niente; il problema più grosso era che a Hig non si toglieva la canzone di testa, voleva andare a una manifestazione; non per protestare, per osservare, osservare come si muovevano e cosa facevano le persone, come si opponevano al governo americano, come erano legate tra di loro: colse solo le ultime parole di suo padre:
“Meno male, non sei come loro, tu sei intelligente”.
Dopo, il padre gli diede un veloce bacio di congedo, e si avviò verso il bagno: lui non doveva sapere, non avrebbe capito, sarebbe andato da solo quel pomeriggio.
Hap era pronto, quel pomeriggio sarebbe sceso in piazza a protestare; ormai era tutto quello in cui credeva, la rivolta aveva fatto progressi, si era espansa, anche se lo stato cercava di reprimerla, ma loro non avevano paura, e quel pomeriggio l’avrebbero dimostrato a tutta l’America. Finì col pane quei pochi fagioli che rimanevano in padella e si infilò una camicia verde militare, sorrise brevemente mentre la indossava, pensando al controsenso che creava, si legò i lunghi capelli e si infilò un cappellino con la tesa: ormai era un’abitudine fare quella vita, anche se quella non era una manifestazione come tutte le altre. C’era qualcosa di strano nell’aria, ma non ci fece troppo caso, allacciate le scarpe ben strette uscì in strada con tante idee e in testa uno strano ritornello a armonica.
Hig era teso, il caldo gli impediva i movimenti, lo costringeva col sudore, si mise una maglietta e si allacciò gli scarponcelli, tremava quasi, suo padre era in salotto e stava dormendo, un minimo rumore e si sarebbe accorto di tutto, da lì non immaginava cosa sarebbe potuto succedere; quando richiuse la porta dietro di sé, non si sentiva leggero come sperava, e dovette camminare un bel po’ prima di stare meglio. La tensione svanì all’istante quando arrivarono le voci in lontananza e la musica che le animava, voci di protesta e di gioia, era difficile da descrivere, accelerò il passo, avvicinandosi a quel ritmo ipnotico. Una volta in quella marmaglia si sentì quasi spaesato, tutta quella gente che ballava e cantava, non sembrava avessero un fine comune, anche se si intuiva un significato più profondo; una ragazza bionda ballava vicino lui, e altri tre o quattro ragazzi vicino a lei ridevano contenti; la sua attenzione fu rapita solo per un attimo da quella scena, perché volse lo sguardo su un uomo vestito da militare, in mezzo alla piazza: sembrava quasi che guidasse la folla, stava urlando qualcosa da un megafono, la sua voce, aumentata dall’apparecchio, lo fece quasi trasalire; poi iniziò quella canzone, quella di Bob Dylan, che da qualche giorno gli suonava continuamente in testa. Da lì tutto sembrò più chiaro: forse aveva finalmente capito cosa voleva, forse il Vietnam non era il suo destino, era quello che voleva suo padre, glielo avrebbe detto, sì, e anche lui avrebbe capito: in fondo voleva bene al suo ragazzo… Un tonfo sordo gelò il pensiero di Hig, si sentì precipitare, la piazza era diventata un grande parapiglia di persone che correvano, inseguiti da un esercito di uomini in divisa, la canzone suonava ancora, sopra le urla della gente e sopra le manganellate dei militari. Hig era steso in terra e vedeva sfuocato, non sarebbe andato in Vietnam quell’anno, non avrebbe ucciso nessuno, e non sarebbe andato neanche al College a essere precisi.
Il ragazzo venne a mancare quel giorno di caldo afoso, in mezzo a una piazza del MidWest, ed è impensabile che le sue ultime parole siano state sentite da uno sporco hippy capellone vestito da militare, giunto lì per soccorrerlo. Probabilmente come ultimo desiderio avrà chiesto di rivedere suo padre , di essere portato d’urgenza all’ospedale, o forse, come ultima ipotesi, solamente di alzare la musica.


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