A ritmo alternato

Da Paride

Biller è un paesino del nord-ovest dove l’inverno fa freddo e l’estate pure ma dove il Sole non manca mai.
Sta aggrappato al monte Esio e pare, ad uno che viene da fuori, sia lì lì per rovinare a valle a seguito del fiume Lao.
E invece no. Saran più di cent’anni ormai che se ne sta lì aggrappato al suo unico appiglio senza batter ciglio. Umile e composto come sempre.

A Biller viveva un vecchio. La gente del posto lo chiamava Jack Pancetta. ‘Sto Vecchio c’aveva sei figli: Olivander il fattore, Bri il boscaiolo, Bernard il droghiere, Gino il fruttivendolo e gli altri due non li ricordo.
Li aveva avuti da tre donne diverse, donne bellissime secondo quanto si racconta ma che sono tutte morte giovani per il carattere di lui, scontroso e taciturno.

Si dice.

Jack Pancetta faceva il falegname come Giuseppe, quello della Bibbia, ma a differenza di quest’ultimo non era mai riuscito a farne una dritta. Egli, infatti, aveva il dono o la maledizione di non arrivare mai a inquadrare in una figura geometrica regolare le sue creazioni; motivo per cui porte e finestre di casa sua sembravano bozze di progetti irrealizzabili, buttati giù da un giovanotto svogliato e sognatore. In un momento di noia.
Ma lui no. Lui era costanza e impegno, lacrime e sudore… lui era l’accanimento nel cercare la regolarità che si risolveva sempre in un cadere continuo nella linea lieve, al di fuori delle regole, distante dai canoni. Così ogni giorno della sua vita non faceva altro che aggiungere prove, prove che entravano a far parte di questo singolare quadro che era la sua casa.
E la sua vita.

Lui era un vecchio di quelli che avevano un autentico e sincero attaccamento alla proprio casa, alla propria terra, ai propri cari. Era uno di quei vecchi che non riesci a portar via dalle proprie abitudini. La gente, quando ne parla, ricorda di come storpiava il proverbio “lontano dagli occhi lontano dal cuore” in “lontano da casa lontano dal cuore”. E infatti quando lo accompagnarono all’ospedale giù a valle, per fargli vedere l’ultima delle mogli sue, ormai morente, si chiuse in un silenzio triste che mai aveva avuto e da cui mai si liberò.

Ma non smise mai di tagliare, livellare, curare le sue creazioni, la sua casa e le sue poche abitudini. Continuava ostinato a dare forma alle sue idee, a incastrarle nel legno che si trasformava in opere amorfe lasciate ai bordi della strada.
Con gli anni quel dono che egli aveva tanto odiato era diventato più marcato, più frenetico. Jack Pancetta si era accorto che gli angoli nella sua testa non c’erano più. Quel dono diventò la sua follia. Cominciò a togliere gli angoli da tutto quello che era fatto di legno prima nella sua casa, poi nel suo paese.
La gente non sapeva come fermarlo, non riuscivano a dissuaderlo. Le staccionate, i segnali, le panchine, perfino i tetti. Tutti gli angoli dovevano essere eliminati, questo Jack Pancetta lo sapeva bene. E sapeva anche che gli mancava poco tempo. Doveva essere più veloce, più bravo, più deciso. Doveva finire il suo grande quadro prima di andarsene via.

Successe ad agosto, all’alba di un giorno ben preciso. Egli si svegliò come al solito. Prese gli attrezzi e scese la strada che lo separava dalla piazza. Si fermò. Guardò in alto e vide la luna che ancora non era tramontata. Poi due giovani si diressero verso di lui. Erano quei due suoi figli di cui neanche lui ricordava il nome. Gli sussurrarono qualcosa nell’orecchio.

Chiuse gli occhi. E morì.

E anche quello non fu di certo un angolo, ma solo un cerchio che si chiuse.


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