“Non esiste un cammino facile per la libertà e molti di noi dovranno passare attraverso la valle dell’ombra della morte, più e più volte prima di raggiungere la vetta dei propri desideri.”
(Nelson Mandela)
Un grande leader, una grande fede. Nelson Mandela nel 1994 diventava il primo presidente nero del Sudafrica.
Aveva 30 anni quando l’apartheid divenne Legge dello stato in Sudafrica, nel 1960 “il massacro di Shaperville” (dove vengono uccisi 69 militanti dell’African National Congress, il movimento contro l’apartheid) segna profondamente la sua vita. Mandela decide di dar vita ad una frangia militarista dell’ANC, che si propone di sovvertire il regime e di difendere i diritti della popolazione nera con le armi.
Nel 1962 fu arrestato e condannato all’ergastolo, rimase in prigione per ben 27 anni e fuori il suo paese stava cambiando grazie a lui. Quando fu liberato nel 1990, rimase stupito nel vedere una folla che lo acclamava, non solo neri ma anche bianchi lo stavano aspettando. Era diventato il simbolo della ribellione, della libertà.
Mandela fu rinchiuso nel famigerato carcere di Robben Island, al largo della costa di Città del Capo. Lui e gli altri detenuti dovettero lavorare fisicamente sette ore al giorno quasi tutti i giorni per 12 anni, finché i lavori forzati furono aboliti sull’isola. Di notte scriveva di nascosto nella sua piccola cella. Era vietato citarlo o pubblicare le sue foto, ma gli intermediari trasmettevano i messaggi dai prigionieri ai leader anti apartheid in esilio. I detenuti si riunivano per seguire delle lezioni e Mandela insegnava a un gruppo di guardie che considerava aperte alla persuasione. Tutte le guardie erano bianche, mentre i prigionieri erano di colore.
Nelson Mandela aveva tenuto duro (gli era stato proposto di uscire se avesse rinnegato la sua battaglia, ma rifiutò), aveva mantenuto forte la fede nel principio di libertà.
Queste le sue parole:
“Sono pronto a pagare la pena anche se so quanto triste e disperata sia la situazione per un africano in un carcere di questo paese. Sono stato in queste prigioni e so quanto forte sia la discriminazione, anche dietro le mura di una prigione, contro gli africani. In ogni caso queste considerazioni non distoglieranno me, né altri come me, dal sentiero che ho intrapreso. Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente può distogliere loro da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione, è la rabbia per le terribili condizioni nelle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni…“
Quando fu liberato dopo 27 anni in carcere, Madiba uscì dalla prigione mano nella mano con la moglie Winnie e alzò il pugno destro in segno di trionfo. Nella sua autobiografia “Lungo cammino verso la libertà” ha scritto: “Quando uscii finalmente attraverso quella porta, sentii che la mia vita stava iniziando di nuovo, anche se avevo 71 anni“.
Il vero nome di Mandela è Rolihlahla, che significa: colui che crea problemi. Un nome profetico che la sua maestra di scuola cambiò con Nelson. Ha avuto diversi soprannomi. Ai tempi della latitanza era chiamato la primula nera per la sua abilità di nascondersi.
In prigione ha letto molto, ma è stata una poesia di William Ernest Henley che gli ha dato la forza di non arrendersi. La poesia si intitola “Invictus” (in latino il mai sconfitto) e nell’ultima quartina recita:
“Non importa quanto stretto sia il passaggio,
quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima”