[on air: A song for you- Ray Charles]
Diventando grande e guardandomi dentro ho compreso di non avere fede. Non almeno in quel Dio che mi è stato presentato dalla cultura nella quale sono cresciuta. Ricordo che da bambina non capivo il motivo per cui si dovesse seguire un iter durante la messa. Non ripetevo a voce alta le formule e non comprendevo il significato delle preghiere o meglio non capivo il motivo per cui mi dovessi rivolgere a una “entità” in cui non credevo. Ero proprio piccina quando questo accadeva, sette/ otto anni, ma in fondo già mi facevo domande anche se non me ne rendevo conto. Gli anni sono passati e io ho camminato accettando questa realtà allontanandomi progressivamente dalla chiesa, cercando talvolta di riavvicinarmi per non isolare i miei figli da una realtà che avrebbe permesso loro di socializzare; è a quel punto che le domande sono arrivate prepotenti e consapevoli. Far parte di una “comunità” che ti calpesterebbe se ti trovasse sdraiato per terra morente, o darebbe fuoco a un “negro” se si potesse indossare un cappuccio bianco facendolo, ha un senso? Cosa significa per me quel segno che tutti fanno quando la celebrazione inizia, o quando si entra in un luogo consacrato? E cosa significa consacrato per me? Come posso insegnare ai miei figli delle preghiere se nemmeno io so quale è il loro reale significato? Cosa significa oggi “fare comunione”? Una domanda dopo l’altra. Poi un giorno una domanda mi ha illuminata: ” credi nel miracolo della risurrezione di Gesù?” e la risposta non si è fatta attendere”No”. Io non credo in quello che è il più grande Mistero della Fede. Non ci credo ed è da qui che parte tutto. Non posso né voglio impormi di credere, non credo che impegnandomi le cose cambierebbero. La fede non è qualcosa che alleni. Ce l’hai dentro, nasce con te, cresce con te, muore con te. Io non ci sono nata. Sono nata con una parola che la sostituisce e cerco di metterla al primo posto anche se so di sbagliare spesso e so di aver sbagliato tanto fino ad ora. Mai volontariamente. Questa parola è rispetto.
Eppure nonostante questa raggiunta consapevolezza c’è una cosa a cui non riesco a rinunciare: il Natale. Non il Natale dei regali o dei pranzi pantagruelici, ma il Natale del presepe, delle luci e di quella magia che arriva quando ascolto i grandi classici della musica di Natale. Non so rinunciarvi e mi sento pure un po’ idiota perché sono incoerente. Non so rinunciare a quel momento in cui le palle colorate escono dagli scatoloni per riprendere il loro posto sui rami. Non so rinunciare al nastro dorato che avvolge in un abbraccio l’albero che ci accompagna da anni. Non so rinunciare alla carezza data agli addobbi che segnano gli anni che passano, al ricordo che ognuno di essi porta con sé. Non so rinunciare al presepe fatto con le nostre mani in un autunno di molti anni fa, con l’aiuto delle mani piccole del nostro primogenito .Non so rinunciare a guardare ora nostra figlia disporre in modo creativo le statuette del presepe. Non so rinunciare al rito dell’accensione delle luci quando il sole lascia il posto all’imbrunire. Non so rinunciare alla pace che mi avvolge quando nella casa silenziosa e buia mi sdraio sul divano e guardo i ricordi di una vita concentrati nell’angolo della sala. Non so rinunciare al’attesa della nascita di un bambino. Un bambino con un destino importante ad attenderlo e che forse cerco di cambiare posizionandolo con amore nella culla la notte di Natale. Proprio come faceva mia madre.
I ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa.
Banana Yoshimoto