Leggo l‘articolo tagliente, doloroso, pieno di amarissima rabbia di Arnaldo Capezzuto. Non è il primo, non sarà l’ultimo, che racconta di una città allo stremo sotto molti punti di vista.
Napoli non si salva, scrive il giornalista partenopeo.
Pur volendo contare solo i morti ammazzati per le strade della città, siamo ormai arrivati a 52 dall’inizio dell’anno. E cinquantadue persone trucidate come bestie, sono davvero tante. Più di una a settimana.
Un morto è un morto. Quelli innocenti, giustamente, li piangiamo a lungo, e si spera possano smuovere una società civile impaurita e abbandonata. Gli altri sono morti e basta. Punto.
Ad ogni omicidio non ci si chiede neanche più chi possa averlo commesso. Di questi assassini sembra non interessarci niente. Purché si ammazzino fra di loro.
Napoli non si salva scrive Capezzuto. Forse ha ragione. Seguo i suoi articoli da molto tempo. Osserva da vicino le cose, le scruta, e cerca un’anima per ogni cronaca. Anima nera, troppo spesso.
Eppure c’è qualcosa che non accetto.
Perdere la speranza è legittimo, è umano. È possibile che sia anche un bene abbandonarla una volta per tutte. Mario Monicelli in una celebre intervista, poco prima di suicidarsi, la definiva una trappola utile a tenere buono chi lotta ogni giorno e nonostante ciò si vede sopraffatto dal sistema corrotto della società.
Eppure abbandonarla, dimenticarsi della speranza, non può essere l’unica presa di posizione. Pur eliminandola, non si può sostituire con uno spazio vuoto. Non si può scegliere di lasciarsi trasportare dalle correnti voraci di un fiume in piena, di cui non si riesce neanche più ad intravedere la fonte. Figurarsi la foce.
Pasolini, di cui pochi giorni fa ne abbiamo ricordato la morte, si tormentava sui mali della società (sua) contemporanea. E questa chimera, la speranza, che pure mari d’inchiostro ha suscitato, aveva ammesso di non nutrirla più. Non in quella società, non in quegli esseri umani, che poi sono gli stessi di oggi.
Ma il suo ruolo di intellettuale, che poi vuol dire poeta, filosofo, scrittore, regista e tanto altro, gli impediva di ritirarsi sull’Aventino delle coscienze.
Lui, alla speranza, aveva sostituito una personalissima lotta alla ricerca della verità, di tante piccole verità. Ed anche se il suo mondo, quello che è sopravvissuto alla sua violenta morte, quel futuro migliore non l’ha mai incontrato, il suo lavoro, le sue analisi, sono ancora in grado di scuoterle le coscienze.
Ecco, si può scegliere di abbandonarsi alla sconfitta. È un diritto, a volte semplice tattica. Ma non è lo stesso che abbandonare la piccola lotta per la verità che ognuno di noi ha il dovere di compiere. E verità in questo caso vuol dire lasciarsi cullare da una certezza. Che chi desiste dalla lotta per il giusto, per il diritto all’onestà, ha già perso. E che disperata, troppo spesso, è solo la nostra paura. Verso il futuro, verso la società, verso noi stessi.
[Articolo originariamente scritto per fanpage.it]