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A Su Brunk'e S'Omu di Bannari, oggi Villaverde, i primi sardi industriali.
Creato il 03 settembre 2013 da Pierluigimontalbanodi Vitale Scanu
Tutti i popoli storici hanno percorso un medesimo itinerario cronologico verso la civiltà: da pastori-cacciatori-raccoglitori sono via via passati all’agricoltura, alla coltivazione del frumento e all’allevamento. Così dev’essere stato indubbiamente anche per gli abitatori del villaggio nuragico di Brunk’e s’Omu di Bannari (oggi Villa Verde). Questa traiettoria, sotto l’aspetto geografico, per gli abitatori di Brunk'e s'Omu alla ricerca di terreni coltivabili, poteva avere, secondo logica, solo uno sbocco obbligato: la ridente e fertile valle sottostante. Non poteva avere alternative né verso Pau, né verso Usellus, ma solo verso la valle di Bàini. La zona viciniore così invitante, la scelta più agevole, più immediata, più logica, congrua e omogenea che si offriva loro: la piana di Bannari. Senza alternative. “Il territorio di dotazione di questo comune – nota il Casalis nel suo noto Dizionario storico-geografico - riconoscesi molto adatto ai cereali”. Convinciamoci: noi bainesi discendiamo dallo stesso ceppo, siamo lo stesso popolo senza soluzione di continuità, abbiamo lo stesso DNA, conserviamo l'eredità biologica degli abitatori nuragici della nostra montagna.
L'indagine archeologica effettuata nel 2005 nel Brunk'e s'Omu, ha finora dissotterrato numerosi ambienti abitativi, di una caratteristica molto primitiva, prevalentemente sotterranei, che presentano diversi vani di forma circolare, sub ellittica, sezione di ellisse, quadrangolare, arricchiti di banconi e nicchie, come in una capanna del villaggio interpretabile come "luogo delle riunioni". Alcuni ambienti, per l'articolazione dell'impianto, fanno pensare a un isolato a corte centrale. Tutti elementi che fanno immaginare l’esistenza di nuclei famigliari e un minimo di attività sociale condivisa. Chi ha visitato il sito archeologico di su Brunk’e s’Omu, resta impressionato, come già detto, per le concordanze tra questi moduli abitativi e le descrizioni che fa lo storico greco Diodoro Siculo (vissuto tra il 90 e il 27 a.C.) dei popoli nuragici. E’ quasi costretto a chiedersi: Ma questo studioso ha forse visitato gli spazi abitativi di su Brunk’e s’Omu, per poterli descrivere così minuziosamente? Né cartaginesi né romani, precisa Diodoro, poterono stanare questi montanari, che vivevano liberi nei loro monti secondo modelli di vita rude e semplice fatta di libertà, di autonomia, di abitudini di vita pastorale e di esperienze talmente radicate, “senza pensieri e senza fatiche”, tanto da tramandarci una viva memoria di sé, anche dopo migliaia di anni, fino ai giorni nostri.
Liberi nei loro monti!… Vediamoli da vicino, i nostri preistorici “compaesani”.
La loro storia è agganciata, e non è una novità, alle vicende dell’ossidiana del periodo nuragico. Il grande accentramento di nuraghi nel territorio (una media di quasi un nuraghe per chilometro quadrato, il più alto della zona, secondo l’archeologo Puxeddu) ci fa dedurre anche una corrispettiva densità demografica, perché i nuraghi, naturalmente, sono stati costruiti e abitati da persone, tante persone, unite per uno scopo unitario, guidate da competenti e geniali “capomastri”: le strutture a tholos, come i nuraghi, presentano infatti problemi di costruzione e di staticità ben più complessi che il trilitismo (Trilitismo è il sistema edificatorio elementare costituito da due elementi portanti verticali che ne sostengono uno orizzontale portato: le piramidi, il tempio di Monte d’Accoddi, Stonhenge… A tholos è il sistema edificatorio a conci aggettanti, che chiudono lo spazio con la cupola: tomba di Atreo, nuraghi…). Dovevano essere capomastri e maestranze di una competenza straordinaria. Una differenza di centimetri nella costruzione a tholos, con quei monoliti giganteschi sistemati a forza di braccia, poteva all’improvviso rappresentare la differenza tra la vita o la morte per tante maestranze. Erano primitivi, avevano un aspetto assai diverso dal nostro, ma erano tutt’altro che stupidi. Pensiamo alla genialità, alla potenza che richiede l’edificazione di un nuraghe: congegni di leve, pulegge, contrappesi… Specifici accorgimenti tecnici e costruttivi, normalmente sconosciuti presso altri popoli in quelle epoche remote, erano forzatamente richiesti per poter realizzare costruzioni del genere, che imponevano determinate precise nozioni affinché le strutture fossero in grado di sopportare quegli enormi pesi, autoreggentisi a vicenda, senza malte né altri leganti. L’inosservanza di tali precauzioni avrebbe inesorabilmente condannato l’opera a catastrofici cedimenti. Quelle nozioni matematiche, geometriche e quantitative non potevano non poggiare su un solido bagaglio intellettuale. Ci si chiede allora: queste nozioni tecniche costruttive (come pure le operazioni di scambio dell’ossidiana) erano perfezionate, condivise, ereditate solo verbalmente e registrate solo mnemonicamente, oppure erano mediate e trasmesse anche da un minimo di simboli e grafici, marcati, per esempio, su pelle, cortecce, foglie, sughero… tutti materiali organici distrutti inesorabilmente dall’azione corrasiva dei millenni? In altre parole, i nostri antenati conoscevano un minimo di scrittura? Come facevano a condividere le precise conoscenze intellettuali indispensabili per simili operazioni?
L’accentramento demografico motivato dall’ossidiana, implica inoltre un’intensa attività sociale e di scambio, con relative regole di clan o interfamigliari. La sua lavorazione, presuppone una rudimentale attività “mineraria”, “industriale” e “commerciale”, svolta da molte persone, nonché un minimo di tracciato viario, percorribile anche con mezzi trainati da grossi animali (ovviamente già domati e ammaestrati), percorsi che i nostri “compaesani” hanno dovuto aprirsi per esportare l’ossidiana, attività che verosimilmente consisteva nel baratto con altri generi di necessità primaria. Questo “vetro vulcanico” (ancora oggi usato in qualche clinica americana – come mi è capitato di leggere - per operazioni di altissima chirurgia…), che a quei tempi diede vita a una vera “rivoluzione”, come dice il professor Giovanni Lilliu, era una merce molto pregiata spendibile dal nostro comprensorio montano; di conseguenza, questa attività di baratto originava, col suo indotto, un certo livello di benessere sociale. Come dire: i primi bainesi hanno conosciuto prima il lavoro “industriale”(!) che quello agricolo.
Nell'immagine: Villaverde oggi.
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