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Non era mai andata molto d'accordo con suo padre, soprattutto da adolescente. Forse perché avevano lo stesso carattere. E piú di una volta lei si era trovata a fare gli stessi suoi errori. Col passare del tempo aveva trovato un modo per non odiarlo. Oddio, era tipico odio adolescenziale. Ma già allora le bastarono le parole di sua sorella per capire che stava esagerando: "Quando lo guardi, certe volte, ti si legge quell'espressione negli occhi. Da i brividi". Crescendo si era aggiunta anche l'età e una naturale propensione a comprendere le ragioni degli altri. Per quanto diverse dalle sue. Per quanto deprecabili. Ma, soprattutto, era stata sua madre, con la sua infinita pazienza, a nutrirla di giudizi meno severi e di sguardi piú benevoli verso l'altro. Alla fine era giunta a un equilibrio. Sapeva di voler bene a suo padre, anche se il dialogo con lui era irrimediabilmente compromesso. "Che fai? Come stai? Hai visto che caldo fa?". E, dopo la morte di sua madre: " Cosa hai mangiato? Come va? Che hai fatto oggi?". Certo, sua madre era la spugna che assorbiva tutti i sui problemi esistenziali, mentre a suo padre toccavano quelli di ordine pratico, come una dichiarazione dei redditi o una nuova tassa da pagare. "Un consulente", pensó lei piú di una volta. Eppure ricordava ancora quella volta che da bambina gli prese la mano per attraversare la strada. Allora il braccio, proteso verso l'alto, le faceva male perché suo padre era un gigante e lei arrivava a stento a toccargli le dita. Ci pensó durante il funerale, seduta tra i banchi della chiesa a guardare la bara che aveva inghiottito sua madre. Lui era al suo fianco e, dopo un tempo interminabile, entrambi si accorsero che si stavano tenendo per mano. Quel gesto la infastidì e sentì tornare a galla un vecchio risentimento. In fondo lui non era mai stato buono con sua madre. Anzi, le aveva reso la vita un inferno con quel suo carattere egoista e supponente. Aveva sposato la carriera, il lavoro. E l'aveva lasciata da sola a crescere tre figlie. Con l'aggravante che una era pure malata. Non aveva mai indossato la fede che portava appesa al collo con una catena insieme ad altri due pendenti, nascosta dalla camicia, dalla cravatta, dalla giacca e da strati e strati di negazione. Non ci aveva pensato due volte a trasferirsi in qualsiasi altra città, tornando a casa solo nei weekend. E quando finalmente mise radici di nuovo dove era la sua casa, fu lei ad andar via. Prima per l'università e poi per una nuova dimora. Aveva vissuto, allora, da sola con sua madre, per tanti anni, raccogliendo le sue lamentele, i suoi dispiaceri per un uomo che non l'amava piú e, cosa peggiore, che non la rispettava. Lui aveva preso a scaricare su di lei tutte le sue frustrazioni. Incolpava sua madre di qualsiasi cosa. Della fame nel mondo come della bolletta da pagare. E lei, testarda, continuava a fargli da mangiare, a lavare i suoi vestiti, a pulire le stanze che lasciava devastate dopo il suo passaggio. Pensó che suo padre non si era mai alzato da tavola per prendere un cucchiaio. Era servito e riverito. Mai usato un aspirapolvere, mai lavato un piatto. E ora aveva due donne che provvedevano alle sue necessità, mandando avanti una casa troppo grande e troppo vuota. Ma la sera... La sera doveva essere difficile. Perché nessuno gli preparava piú la cena. E, in qualche modo, aveva trovato la strada per una nuova quotidianità. Chissà con che fatica. Eppure le sembró che se la stesse cavando meglio di lei. Lei aveva perso il suo mondo, il suo punto di riferimento. Lui solo uno sparring partner contro cui scagliare una rabbia inespressa. E avevano avuto modo, entrambi, di comprendere appieno il significato della parola "dovere". A lei lo avevano ricordato fin troppe persone. Doveva occuparsi di suo padre. Le toccava in sorte perché, essendo single e vivendo da sola, per gli altri era naturale che si trasferisse di nuovo nella casa natia, a proseguire l'opera di accudimento eterno messa in atto da sua madre. Non lo fece mai. Perché anche lui comprese il dovere di lasciare che le sue figlie vivessero la loro vita. E, certo, almeno una volta a settimana entrambi cercavano di incontrarsi, di cenare insieme. Perché dovevano farlo. Lei si chiedeva se ci sarebbe riuscita a volergli bene come a sua madre. Si sentiva infida e cattiva a questo pensiero. Era suo padre. E doveva volergli bene. Allora, appena poteva, lo accompagnava da qualche parte. Una volta andarono nella casa al mare. Non fu proprio un weekend di piacere. Bisognava aprirla dopo un anno e togliere, anche da lì, le tracce della presenza di sua madre. Lo vide piú fragile che mai, invecchiato, di colpo. E bisognoso di cure. Quelle stesse che la sua vita, ormai verso un'altra direzione, non poteva dargli se non dilazionate e ad intermittenza. Continuava a chiedersi se sua moglie gli mancasse ogni tanto, se in qualche modo avvertisse l'assenza della donna che lo aveva accudito come se fosse il figlio piú difficile da seguire. Pensó che in fondo non lo avrebbe mai saputo davvero. E si morse la lingua piú di una volta per non rinfacciargli tutte le sue mancanze, in un misto di pietà e buon senso. Andarono in spiaggia per uno scampolo di sole primaverile e perché non avevano altro da fare. Quella spiaggia che per quasi trent'anni li aveva visti insieme a sua madre. Raccolsero, a distanza di mesi, nuove condoglianze da vecchie conoscenze estive e, per qualche minuto, tornarono a quei giorni di dicembre e allo scoprirsi mano nella mano di fronte a una bara. Poi lo vide finalmente, in costume, senza piú difese o strati che potessero nasconderlo. Al collo portava la solita catena, ma le fedi erano due. E capì, allora, che anche a lui mancava. In qualche modo. A suo modo...Articolo originale di Federica Rossi per Poco sex e niente city.
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