Di SONIA CAPOROSSI
When comes the shaking man
A nation in his eyes
Striped with blood and emblazed tattoo
Streaking cathedral spire
They say
They say
They say
“He has no brain”
They say
“He has no mood”
They say
“He was born again”
They say
“Look at him climb”
They say, “Jump”
(David Bowie, Jump, the say, 1993)
Mentre scrivo queste righe è passata solo una settimana dalla sua morte e sei giorni dal suo annuncio al mondo. Lunedì scorso, mentre il Duca Bianco forse stava ancora volando in cielo per cercare vita su Marte insieme al maggiore Tom, annunciavo al popolo dei social network che durante la puntata serale di Moonstone, la trasmissione di musica alternativa che conduco fra alterne vicende dal 2008 su Radio Centro Musica in qualità di musicologa, avrei tenuto uno special sulle canzoni di David Robert Jones. In arte David Bowie. Quella sera le statistiche di connessione web e FM alla radio sembravano impazzite. Un popolo intero di appassionati stava seguendo la scansione della playlist ragionata che non avevo avuto la minima difficoltà a preparare, per la grande quantità di canzoni capolavoro che Mr. Jones ha saputo produrre in cinquant’anni di carriera e 25 album ufficiali, che diventano 52 se contiamo i live e le raccolte.
Lunedì scorso all’annuncio sui giornali della sua morte, per qualche ora, il mondo s’è fermato. In quelle stesse ore c’è stato chi, di fronte all’isterismo collettivo di coloro che manifestavano il proprio dolore scompostamente, come se fosse morto un amico, un fratello, un amore, non ha perduto occasione per stigmatizzare le scene oggettivamente pietose di mancata elaborazione del lutto a cui su internet si stava assistendo. Tuttavia, per far questo, chi aveva in uggia il presunto fanatismo altrui cadeva nella più patente petitio principii, perché per negare validità al mito, si doveva negare per partito preso, ovvero anapoditticamente e pregiudizialmente, per postulato assiomatico, che Bowie fosse mai stato un grande artista: e solo negare che Bowie fosse stato un grande artista permetteva di denigrare il mito, non ridimensionabile altrimenti.
Capisco l’astio anticonsumistico e francofortiano contro i mitologemi. Capisco l’avversione all’iconismo capitalistico. Anch’io mal sopporto i miti in quanto tali, per costituzione e forma, per una spontanea avversione nei confronti dell’adorazione acritica e smaccata che sempre essi inducono, per l’adesione irrazionale ad un’imago, per la fiera delle res gestae Divi Titii, per la frequente deficienza e ridicolaggine in spirito dei cosiddetti “fan” che si strappano i capelli. Ma di fronte alla negazione pura e semplice che un grande artista sia stato tale, se permettete, non ci sto. E vi spiegherò perché, anche se darò in questa sede per scontate, nel lettore, alcune conoscenze filosofiche di fondo. Ma certo, chi segue Critica Impura sarà abituato.
La perdita dell’aura imputata all’arte contemporanea da Walter Benjamin nel suo famoso L’opera d’arte nell’era delle riproducibilità tecnica fa da pendant al “dissolvimento” dell’arte di hegeliana memoria (dissolvimento è esattamente il termine che usa Hegel); ma questo, lungi dal significarne la morte, ne esprime una diversa modalità contenutistica e formale, anche quanto alla fruizione, come si evince nel caso della fotografia e della litografia, del resto; forme d’arte fin dal loro sorgere peculiari in quanto riproducibili tecnicamente all’infinito, e che oggi nessuno si piccherebbe di dichiarare carenti d’artisticità in quanto tali. David Bowie appartiene alla vasta categoria di coloro che si aggirano nella dimensione della riproducibilità tecnica della propria arte, quella stessa che fa perdere l’aura originariamente sacrale al pezzo artistico sottraendogli l’unicità; quella stessa che consente però la reduplicazione dell’oggetto d’arte per una più capillare fruizione su scala planetaria. Come dire che l’arte da una parte ha perso in alone antropologico, dall’altra ha acquistato in spessore estetico – sociale. Ecco allora la stampa dei dischi in migliaia di copie, ecco le tournée, ecco il raggiungimento di ogni angolo del pianeta per il tramite delle proprie note e della propria immagine. David Bowie è un artista che ha prodotto arte e ne ha consentito, anzi ne ha auspicato e sobillato la riproducibilità.
È chiaro che ci si può scontrare sul mero giudizio di valore, sulla questione esteriore, per dir la verità, dei gusti musicali personali, sulla sopportazione o meno dei suoi modi, della sua figura, dei suoi atteggiamenti, financo della sua voce (un timbro che riusciva ad alternare l’aspetto nasale al canto di gola e di diaframma, con una modulazione e un vibrato di tutto rispetto).
Si può, insomma, dire tutto, per carità.
Eppure, dire che Bowie non è un grande artista perché appartiene all’industria culturale in quanto industria, ovvero in quanto è oggetto di mercificazione e consumismo a partire dal supporto fisico del disco per finire alla sua icona in quanto riproducibile fisicamente nei poster, nelle interviste, sui giornali, in TV e nei video musicali, è come dire che l’Ulisse di Joyce non è arte perché viene stampato e venduto in milioni di esemplari, o che Joyce non sia un grande artista perché ha prodotto libri riproducibili, la sua immagine con gli occhialetti è dappertutto e viene molto amato da una schiera di lettori. A volte, insomma, si confonde il prodotto, ovvero l’oggetto che rappresenta il supporto della fruizione artistica, con l’arte vera e propria che c’è dietro. E certo, dietro questa incomprensione di fondo c’è una profonda volontà di stigmatizzazione dell’assolutizzazione altrui, quella forma di assolutizzazione di cui parlavo prima, che infastidisce anche me perché reca le impronte del mitologismo acritico e della sacralizzazione indebita. Ma attenzione.
L’Assoluto sta in ogni assoluto, anche nell’assoluta negazione che valga un assoluto, e in ogni sintassi logica che si ponga in forma di universale affermativa o negativa. L’assoluto, per questo motivo, io personalmente non l’ho mai stigmatizzato: ho sempre pensato che se esiste il concetto, servirà a qualche cosa. Allo stesso modo, se è pur vero, con Lotman, che non esiste in natura alcunché che possa considerarsi estraneo ad essa, e che, con Wittgenstein, “se al mondo vi fosse una sola cosa allora non ci sarebbe nessuna cosa”, anche relativizzare, del resto, è un assoluto qualora venga posto in forma universale. Come non sottolineare, piuttosto, la contraddizione insita nel fatto che negare un’assolutizzazione in modo assoluto è un’assolutizzazione a sua volta?
Come si vede, dall’assoluto non ci si libera. Il voler paventare un proprio uscire dal coro negando assolutamente l’assolutizzazione altrui non è altro che assolutizzare stoltamente a sua volta e per questo rientrare nel gregge di coloro che non vogliono stare nel gregge, oppure, con Kerényi e contro Malinowski, nel mitologema di coloro che stigmatizzano i mitologemi. Così come tirare in ballo il materialismo dialettico contro l’iconismo capitalistico di una qualsivoglia mitografia dei tempi odierni, nel 2016 e da una piattaforma social qualsivoglia, che di altro non è espressione che dell’iconismo capitalistico e della mitizzazione immaginifica di se stessi in se et per se, è cosa priva di senso. Che cosa infatti, oggi, non è oggetto di consumo, se anche solo dalle bacheche di facebook non facciamo altro diuturnamente che offrire il consumo di noi stessi?
Allo stesso modo, prendersela contro l’industria culturale perché sforna quei veri e propri prodotti di consumo che sono i dischi è fallace se cade nella generalizzazione indebita. Occorre infatti operare i dovuti distinguo; e non si tratta solo dei distinguo necessari a discernere l’arte da ciò che Battiato in Bandiera Bianca definiva “le immondizie musicali”, ma della distinzione fondante in senso estetico che si può formulare in questo modo: il disco è un prodotto di consumo, l’artista è l’uomo che produce l’arte che si fruisce tramite il mezzo da consumare. E dunque, non si vede il problema.
Ecco che tutto si riduce semplicemente a una questione di sensibilità musicale o umana; o almeno così sembra. Infatti, se può essere vero, con Kant, che la natura delle persone nel comune fondamento del senso estetico in buona sostanza non differisce, in quanto differisce kantianamente solo il giudizio sul piacevole (il “mi piace”, il “de gustibus”), non il giudizio sul bello (è che ben altra cosa dal semplice “mi piace”); se quindi può essere vero che la dimensione estetica si fonda su un sentire comune, è anche vero che il sentire non rientra nella sfera teoretica, non è quindi oggetto di speculazione o di ragionamento: si sente o non si sente, e basta. Non nella cultura, quindi, ma nella natura che condividiamo occorre cercare l’elemento comune che ci chiama umani. La cultura non c’entra niente: è una questione di mero trasporto sentimentale.
Così, per sentimento, ecco le più commoventi manifestazioni d’affetto nei confronti di David Bowie, che sorgono ogni dove come funghi. Ecco la gente riunirsi a Londra, a New York e nella romana Piazza del Popolo, per cantare, pittarsi gli occhi come Ziggy Stardust, ricordare le sue canzoni, la sua bravura, la sua arte, la sua figura. Ecco per esempio che qualcuno si è ingegnato a disegnare la costellazione Bowie, come il fulmine sul volto di Aladdin Sane. Al suo interno ognuno può adottare una stella della galassia annessa e lasciare un proprio ricordo e contributo dedicandogli una canzone del suo repertorio (se volete andarci, cliccate qui).
Tutto questo è puro amore della gente nei confronti dell’uomo, lo stesso che si può provare nei confronti di uno scienziato, di un letterato o di un artista che ha dato un contributo duraturo all’umanità e che ci ha accompagnati nei migliori momenti, ma anche nei peggiori, della nostra vita. Il lemma “Mito”, in questi frangenti e per queste persone, non significa niente, perché un mito non è reale. Se insomma, per dirla con Morrissey, “the music that [the DJs, NdA] constantly play IT SAYS NOTHING TO ME ABOUT MY LIFE”, laddove la musica di cui parlano gli Smiths in Panic (1986) si manifesta in forma di consumismo, la musica di Bowie, al contrario, ha detto molto a milioni di persone in tutto il mondo, e per questi milioni di persone non vale il mito, ma l’uomo.
Così, anche coloro a cui Bowie non è mai piaciuto, approfittino della sua morte per ascoltare un poco di più i suoi dischi, poi mi sapranno dire. Se non si entusiasmeranno di fronte ad uno che è riuscito in punto di morte a fare arte della propria fine, se non sentiranno un brivido d’angoscia all’ascolto di Blackstar, all’autoconsapevole canto del cigno di un uomo che ha tenuto saldamente nascosta la propria malattia degenerativa e mortale agli occhi del mondo perché voleva lavorare fino al termine dei suoi giorni per donarci il lascito dell’ultima opera d’arte (Blackstar, per inciso, è un capolavoro), non sarà carente la loro cultura musicale o no, ma la natura estetica della loro possibilità di condivisione con gli altri. Quella stessa in base alla quale, sempre secondo Kant, noi “pretendiamo” che il resto del mondo si trovi in accordo e in armonia con noi quando esprimiamo un giudizio estetico su un fatto d’arte.
E tuttavia, non ci pensiamo. Il mondo è troppo bello e troppo breve per addolorarsi delle sue brutture, compresa la morte. Del resto, abbiamo imparato da una lunga frequentazione musicale la lezione di David Robert Jones: non ha senso avere paura. Così,
Let’s dance,
For fear your grace should fall
Let’s dance,
For fear tonight is all.