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A Venezia è vietato dire di no

Creato il 13 maggio 2015 da Albertocapece

imageAnna Lombroso per il Simplicissimus

Nel giorno in cui molti, numerosi e adirati veneziani –  – tra loro gli incriminati per altre pacifiche proteste –  manifestavano contro il passaggio in lagune delle Grandi Navi, il Corriere della Sera pubblicava una consultazione condotta presso gli aspiranti sindaci di Venezia, unanimemente e concordemente  contrari a quellanuova via d’acqua per le Crociere a Venezia” che il suo patron, il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa, ha il coraggio di definire “ un’occasione di recupero morfologico della Laguna Sud e di salvaguardia degli investimenti nell’area di Marittima, senza perdersi  la meraviglia“.

Ma non si rallegrino quelli che aspirerebbero a sentire finalmente un no deciso alle flotte  dei forzati delle crociere, a un turismo ancora meno profittevole e sostenibile di quello delle carovane condotte come ciechi da altri ciechi in percorsi obbligati, a invasioni maleducate e irrispettose, a passaggi brevi il tempo di un selfie e indifferenti alla fragilità della città.  Non era solo il candidati che proprio quel giorno schierava una improbabile flottiglia  di rimorchiatori rosa confetto a sostegno della sua modesta proposta del raccordo con il canale Vittorio Emanuele, con annesso sbancamento del fronte di Marghera:  anche gli altri, tutti, si dichiaravano pragmaticamente  motivati alla ricerca di ragionevoli soluzioni alternative. E chi vuole sperimentare  l’avamporto galleggiante di San Niccolò. E chi invece giura sulle banchine al posto del Mose. E chi sostiene l’attracco a Marghera. E chi invece si schiera con il rafforzamento della Marittima.

Tutti contro il Contorta, insomma, ma tutti con le Grandi Navi.

È davvero disperante l’assoggettamento all’implacabilità del profitto, anche contro verità accertate e dati consolidati, primo tra tutti quello che conferma che a fronte di danni all’ambiente, all’equilibrio lagunare, alle esigenze della mobilità interna alla città e quindi alla condizione abitativa, i benefici economici e sociali sono irrisori. A dirlo non sono movimentisti verdi, fan di Latouche della decrescita più o meno felice, misoneisti protervie  luddisti irriducibili. È invece quella Università di Ca’ Foscari che ha vantato tra i suoi rettori proprio Costa e che ha condotto delle rilevazioni incoraggianti, trattate da dirigenti veneziani e stampa tutta come un samizdat insurrezionalista o una faziosa patacca. E senza dire che   il sistema lagunare ha perduto negli ultimi 40 anni circa 6o kmq di barene, che, anche  a seguito dello scavo del Canale Malamocco-Marghera, è stata ridotta a uno specchio d’acqua continuo di 150-200 cm. di profondità, che insieme all’aumento della profondità dei canali marittimo-portuali e delle bocche di porto, si è verificato  un incremento delle velocità delle correnti di marea, dell’effetto del moto ondoso da vento e dei volumi d’acqua che passano per le bocche di porto, producendo, determinando processi che confermano la inanità del Mose se non come macchina  produttrice dei formidabili profitti del malaffare. Anche queste conoscenze trascurate o sottovalutate, perché a Venezia non si compie solo il rito dell’inchino alla lobby delle compagnie armatrici delle crociere, ma ci si  sottomette alla coazione a costruire o scavare delle imprese associate nel  Con­sor­zio Vene­zia Nuova, qualsiasi sia poi la soluzione praticata, poiché vige per legge un anomalo sistema monopolistico  con un concessionario legittimato a esercitare collaudi, a vigilare sulla compatibilità, a inquinare per poi incaricarsi del risanamento, ci si piega  al nuovo il pro­ject finan­cing da 2,5 miliardi del temi­nal por­tuale d’altura che Costa vuole varare ad ogni costo. Mentre alla sal­va­guar­dia della laguna restano le bri­ciole dell’ormai ex Legge Spe­ciale can­ni­ba­liz­zata dal Mose, minacciate dai nodi scorsoi  della legge di stabilità.

Ma pare sia impossibile dire di no. Pare sia impossibile  cominciare a considerare la ricchezza e la sua crescita come un mezzo e non come un fine. Pare sia impossibile sottrarsi all’illusione che la tecnica e le macchine siano fattrici del progresso. Pare sia impossibile essere moderni e civili a un tempo come  l’imperatore Diocleziano che ordinò all’inventore di un marchingegno che permetteva di sollevare meccanicamente le immani colonne dei suoi templi, di bruciare quel suo progetto, che avrebbe provocato disoccupazione e fame “per i suoi poveri proletari”. Pare sia impossibile sottrarsi a quel perverso alternarsi di belle époque di prosperità economica e di aumento generale medio del benessere e di  età dei torbidi, di guerre, crisi, disoccupazione, stragi e conflitti sociali e ideologici che aveva caratterizzato il secolo breve. E pare sia inevitabile assecondare la tendenza alla distruzione creatrice e alle opere devastatrici, come accettare la conversione ineluttabile dal sogno della piena occupazione all’incubo della mala occupazione.

A Venezia si sta officiando una pièce de rèsistence, per testare fin dove si può arrivare  nell’esercizio dell’oltraggio, dell’alienazione dei beni comuni, nella cancellazione della bellezza e perfino della sua memoria, nel consolidamento delle disuguaglianze, che si confermano perfino nel g0dimento  della città più speciale del mondo, trasformata da utopia in distopia, se verrà esasperato il contrasto tra chi vive condizioni di esclusione, di “fragilità sociale” , di povertà e un ceto sempre più ricco, come tra chi visita un luogo unico irreggimentato come un forzato e chi può appartarsi in palazzi sontuosi, ai bordi di piscine cristalline, nel beato dondolio di imbarcazioni da sultano.

Eppure basterebbe cominciare a dire di no.


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