A volte negli occhi dei padri si vede come un velo, quando parlano dei figli.
Forse una distanza ("se ne occupa mia moglie, in fondo, e va bene così"). Oppure "non li capisco, non sembrano quasi essere figli miei" che è esattamente la stessa cosa.
Forse un rimpianto, come di qualcosa andato "storto" ma che ora è difficile, molto difficile, raddrizzare.
Altre volte c'è una complicità (soprattutto quando i figli sono adolescenti) giovanilistica, un'amicizia paritaria che facilmente può essere fraintesa. E sfuggire alle regole, ai ruoli, ai compiti.
Ci sono padri presenti che vivono la responsabilità come un peso schiacciante. Come una fuga da tutto il resto. Come un cercare se stessi in quel nuovo "lavoro".
Alcune volte silenzi ottusi che interrogano senza fine, domande che si rincorrono e che sembrano senza risposta ma anche, scusandomi per l'involontario bisticcio di parole, anche senza domande.
Padri che c'erano e oggi non ci sono più. Padri che non ci sono mai stati. Padri-ragazzini che chiedono comprensione come se si trovassero di fronte a un genitore altro da sé.
Padri che fanno a gara nel conquistare vette che non avevano bisogno di essere scalate. Padri che nemmeno ci hanno mai provato, sconfitti dalla fatica del solo pensarci.
Padri che scompaiono, nascosti dietro se stessi o dietro qualcun altro che li sostituisce.
Padri che hanno i figli all'altro capo del cellulare, ogni tanto, ogni qual volta. Spesso o poco, chissà.
A volte guardo me stesso e mi dico chissà quante altre volte inciamperò e ogni volta che fatica ma anche che grande conquista rialzarsi. E ricominciare.