E no vabbé, diamine, questo no! Vivaddio, ma giudicare l’avversario politico perché ha violato la no fly zone che attornia un sovrano, un re, un monarca, questo non ci sta proprio. La battaglia politica plastificata e cieca, incappucciata sotto il passamontagna della casualità, arriva a tanto? A schierarsi contro perché il proprio contro ha penetrato l’intagibilità di un potente? Diamine, no. Nel giorno della festa della Repubblica, poi. E’ il punto apicale di un’opposizione ipotetica, che ha lasciato che la lotta politica abdicasse, abituata com’è a vivacchiare di piccoli occasioni. La sinistra, il centrosinistra, molti dei giornali di parte sono oggi sostenitori del protocollo liberale, del galateo ossessivo che condanna le classi inferiori ad una obbedienza guercia. Si è bestializzata nel tentativo di divorare belve incarognite, già spolpate dal tempo.
Ha provato a nutrirsi del sangue lasciato in terra da Tangentopoli, a soddisfare la bramosia ingorda della gola inghittendo quintali di carte, giustizialismo ad oltranza, sposando le teorie forcaiole che sono sempre le stesse che hanno bastonato il movimento bracciantile, caricato gli operai, azzerato la lotta di classe, ad aggrapparsi alla speranza delle gambe di una ragazzina marocchina, sfruttata volontariamente e volontariamente parte del circuito del suo stesso sfruttamento. Ha tentato di fagocitare, nella sua lotta mediatica, starlet e puttanoni, ha intessuto le lodi degli avversari più lerci per averne in cambio uno straccio di dialogo. Ha modulato le teorie, le idee, i valori sulla base di una crociata desertificata dei contenuti. I processi, le mignotte, le esternazioni. Tutto utile alla causa. Tutto, ma non le armi della politica. La sinistra, con la concussione di un sindacato venduto e corrotto, Camere del Lavoro ridotte a Uffici del Lavoro, ha chiamato in ballo la piazza a suo piacimento. Le ha detto cosa fare, dove, come e perché. Le ha imposto il limes delle autorizzazioni, ha sterilizzato la valenza di uno sciopero con la becera minaccia della precettazione.
La sinistra liberalizzatrice, filoebraica, oppressiva, prostituita ed asservita ai peggiori anacronismi, al femminismo giustificatore della svendita della dignità, al sessantottinismo d’outlet, più Fonzie che Che Guevara, che beve Coca Cola e trangugia patatine San Carlo. Stop, fine, alt. E’ il capolinea. Non c’è nulla da fare. Amarezza, tanta. Di quella fra le peggiori. Capisci di aver perso una battaglia politica nel momento in cui quello che hai difeso pur conoscendone i limiti e che fuori, all’esterno, viene considerato poco meno che un eroe, non è che uno degli ingranaggi, per giunta tra i più lubrificati, dell’intero sistema.
Abbiamo perso tutti. A sinistra abbiamo deciso di perdere nel momento in cui abbiamo affidato la redazione della nostra dignità a cannabinoidi occupanti di piazze più simili ai campeggiatori delle Baleari che alle schiere popolari dei diritti lesi. Abbiamo perso quando abbiamo accettato la sfida del berlusconismo, credendo di aver invertito una tendenza, in realtà, non facendo altro che perpetuarla. Solo con termini diversi. Abbiamo perso quando le prime femministe hanno pronunciato l’attributo “mia”, sancendo la fine di una dimensione collettiva della lotta che, quella sì, era corpo degno di salvaguardia. Abbiamo perso quando abbiamo accettato di metter in cantina i buoni maestri per adottarne di nuovi. Abbiamo perso quando abbiamo propinato ai nostri figli “Harry Potter” invece di incitarli ad una sana giornata di pallone in strada. Abbiamo perso quando abbiamo creduto in una cultura esclusiva, chiusa nelle cabina di regia, nei palazzi di città borghesi. Abbiamo perso quando, nei Settanta, negli Ottanta, abbiamo fatto del cinema e della letteratura la nostra unica ragione di comunicare, mentre don Milani ci rinfacciava il modello giusto, studenti con in mano i contratti di lavoro, cervelli pensanti in vece delle nuove generazioni pecoresche. Abbiamo regalato la scena ai Fellini, ai Pasolini, ai Feltrinelli, credendo che la propulsione fosse il chiudere il sipario sul proletariato gretto. Abbiamo preferito il diritto del dandy debosciato a quello di milioni di famiglie, per il timore di sembrare vecchi. Abbiamo perso nelle alleanze strategiche, nell’accettazione di un leader democristiano e potentissimo (Prodi), abbiamo perso quando abbiamo creduto di essere i migliori e, per questo infrangibili. Abbiamo perso nell’abbandonare i circoli, le sezioni, il presidio del territorio. Abbiamo perso quando abbiamo sbiadito il potere dei sogni nell’appannamento di una sbornia da Tavernello. Abbiamo perso quando abbiamo accettato la difesa d’ufficio dei tipi da stadio a quella dei tipi da fabbrica. Abbiamo perso delegando tutto all’associazionismo, al movimentismo. Abbiamo perso quando abbiamo creduto di poter fare la rivoluzione soltanto con quattro studenti e tre striscioni. Abbiamo perso scambiando capobranchi per leader, Vendola per Allende, Bersani per Togliatti. Abbiamo perso quando ci chiamavano “radicali” e, anzicché vantarci ci siano offesi. Abbiamo dimenticato che “radicale” vuol dire “con radici”. Abbiamo perso facendo in modo che fossero divelte e piantate altrove. Ci siamo fatti invasare in una serra, convinti che sì, la terra è terra e che, in fondo, meglio la garanzia di chi ci dà l’acqua ogni giorno che la prospettiva di un’estate senza pioggia. La sinistra dei cagnolini addomesticata ai piedi del signore, ci siamo bonsaizzati, merce da collezione e malleabile. Abbiamo perso quando abbiamo perso il coraggio di un’idea diversa ma comune, la capacità di proporre.
Amaramente, abbiamo perso quando credevamo di avere vinto. Ovvero, quando, credendoci vincenti, abbiamo difeso i vincitori. Come i re, per esempio…
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