Quante contraddizioni in quest'era così tormentata! È l'era della comunicazione, l'era della globalità ma anche della solitudine e dell'incomprensione! Basti pensare al ruolo che possiede la televisione, entrata comodamente in ogni casa e che ruba, nelle famiglie, momenti preziosi al dialogo. Essa propina allegramente notizie drammatiche, parla crudamente di morti causati da terremoti, odio familiare, tragedie annunciate, e subito dopo ecco che parla di cose effimere che cancellano immediatamente le tracce di una pietà o compassione nata nel cuore del telespettatore. Un modo per dimenticare una realtà che fa male, un modo per cancellare, purtroppo, qualsiasi possibilità di riflessione. La rapidità delle immagini e soprattutto degli stimoli che trasmette la televisione, non ci consente di soffermarci, di pensare in modo più profondo al dramma umano. E gli telespettatori? Si abituano. Il dramma di cui parla la televisione non li tocca, o almeno fino ad un certo punto. Sono ormai abituati ad udire tante notizie drammatiche che si sono assuefatti, come si fa assumendo sostanze stupefacenti. Il risultato è devastante. Le notizie tragiche diventano il cibo quotidiano dell'anima e oltre ad un “poverini” sussurrato a fior di labbra, tutto finisce là. Certo, a volte l'odio, la cattiveria umana ci fanno sentire impotenti. Non possiamo far nulla, effettivamente, se non pregare. Non lasciamoci scivolare queste notizie come se fossero acqua fresca che scorre sulla pelle della nostra anima come se quest'ultima fosse impermeabile. La nostra anima, nata direttamente da Dio, non è mai impermeabile! Essa ha bisogno di lubrificarsi, di essere sensibile agli avvenimenti per poter agire, amare gli altri, aiutarli nel momento del bisogno. Eppure la televisione, sebbene non ci accorgiamo dei suoi effetti, può agire in questo modo nel nostro cuore, cambiandone le fibre, anestetizzandone le corde che, pizzicate, non vibrano più. E tutto finisce nell'abisso del silenzio. Sentendo queste notizie, in qualità di cittadini del mondo, dovremmo domandarci costantemente che cosa desidera da noi Dio, in quanto nulla avviene a caso e se ha permesso che noi venissimo a conoscenza di quel dato avvenimento, tutto ha un senso, un senso nella “psicologia” divina che forse a tutta prima non riusciamo a comprendere, ma che agli occhi di Dio è fondamentale. Noi siamo i suoi strumenti, Dio non ha più mani né piedi, come diceva un famoso canto liturgico, ma si serve di noi per giungere a coloro che gridano a Lui. Siamo il prolungamento della Sua stessa vita. Lo Spirito ci dovrebbe aiutare, animare nell'esecuzione del bene, quello che Dio vorrebbe fare ancora sulla terra, come faceva quando, in un dato momento storico, decise di scendere sulla terra, assumere un corpo per poter salvare l'umanità che tanto amava, per poterla portare con lui nell'alto dei cieli. Egli, quindi, ci guida, ci mette a conoscenza delle notizie su cui noi in qualche modo dovremmo intervenire. Tutto ha un disegno preciso, non possiamo far cadere tutto nel calderone del relativismo che ci rende parte di una folla anonima e che, invece, come facente parte del Corpo mistico della Chiesa, dobbiamo essere “santi”, cioè, dall'etimologia stessa del termine, separati dal resto delle persone, con una mentalità che respira dell'afflato di Dio. La mentalità di Dio esula da quella dell'uomo, ed è talmente diversa e così innaturale, che ci comanda di porgere l'altra guancia quando ci percuotono e di amare i nemici come se fossero nostri amici. Questo atteggiamento non asseconda di certo la natura umana, ma va contro essa e contro il nostro stesso istinto che farebbe scattare la mano per restituire la sberla ricevuta.