Vi sono ancora, ad oltre tre decenni dall’entrata in vigore della Legge 194/’78, valide ragioni a suffragio dell’aborto legale? Apparentemente sì. Anzi, sembrano esservene talmente tante che non esisterebbe neppure un valido argomento per opporvisi, pena accuse che spaziano dalla violazione dei diritti della donna a spietate nostalgie medievali. Tuttavia, se analizzate attentamente ed al di là della retorica si scopre come, in realtà, le tesi giustificative della depenalizzazione della pratica abortiva risultino sorprendentemente fragili quando non del tutto infondate anche se, a prima vista – occorre riconoscerlo – ben confezionate e convincenti. Passiamo allora in rassegna, al fine di poterne valutare l’effettiva consistenza, i cinque più diffusi argomenti a favore dell’aborto legale, che sono quelli dell’aborto clandestino, della salute della donna, del caso di stupro, dell’esercizio di libertà della donna e della maggioranza degli ordinamenti giuridici.
1.Per contrastare l’aborto clandestino
E’ un argomento condiviso da quasi tutti, persino da molti cattolici, ma doppiamente fallace, sotto il profilo logico e pratico. La prima criticità concerne la logica secondo cui, se esistente e ritenuto non eliminabile del tutto, un fenomeno deve essere legalizzato. Applicando lo stesso ragionamento, si dovrebbe ritenere corretto legalizzare realtà esistenti e non eliminabili del tutto quale il furto, l’evasione fiscale, lo spaccio ed altro ancora: il che sarebbe assurdo. Perché dunque quello che non vale per furto, evasione ed altro dovrebbe valere per l’aborto? Tanto più che – e veniamo al lato pratico – l’aborto clandestino, dopo decenni di legalizzazione, rimane, eccome: le stesse, prudentissime (e non aggiornate) stime ministeriali alludono ad almeno di 15.000 casi l’anno. Un po’ troppi, converrete, per brindare all’eliminazione degli aborti clandestini, a meno che non ci si rifiuti di guardare in faccia la realtà.
2. Per la tutela della salute della donna
Tesi diffusissima, ma clamorosamente falsa: l’aborto volontario non agevola, ma mina la salute materna. Non a caso la ricerca più autorevole ha rilevato come la perdita volontaria di un figlio sia associata – per fare una rapidissima panoramica – ad una più alta incidenza di tumori al seno (Indian J of Cancer 2013), di isterectomia post-partum (Acta Obstet Gynecol Scand 2011), placenta previa (Int J Gynaecol Obstet 2003), aborti spontanei (Acta Obstet Gynecol Scand 2009), depressione, abuso di sostanze (Psychiatry Clin Neurosc. 2013) nonché mortalità materna (J of American Physicians and Surgeons 2013). Lo stesso divieto di aborto non comporta maggiore mortalità materna (PLoS ONE 2012): in Irlanda, con detto divieto, si è registrata una bassissima di mortalità materna, addirittura la più bassa al mondo nel 2005 e la terza più bassa nel 2008. L’incubo delle mammane, dati alla mano, è dunque più incubo che realtà.
3. Per non costringere donne stuprate a partorire
E’ il classico “caso limite” col quale l’abortismo ammutolisce quanti osano discuterne i presupposti. Trattasi però, ancora una volta, di argomento debole. Per ragioni etiche e statistiche. Partendo dalle prime, se la soppressione deliberata di un essere umano è ritenuta intrinsecamente ingiusta e malvagia, giammai si può derogare a questo principio senza comprometterlo; se, cioè, si ritiene l’aborto giustificabile “a certe condizioni”, si finisce inevitabilmente – per via della slippery slope o teoria della china scivolosa – per giustificarlo a “tutte le condizioni”. In seconda battuta, la debolezza di questo argomento emerge dai numeri: la percentuale delle donne che abortiscono a causa di uno stupro è infinitesimale – l’1% -,come appurato anche dal Guttmacher Institute, punta di diamante della lobby abortista americana (Perspect on Sexual and Reprod H.; 2005). Questo significa che chi evoca l’ipotesi dello stupro per giustificare l’aborto legale non fa altro che evitare di confrontarsi col cuore del problema, che è l’intangibilità della vita umana.
4. Per tutelare la libertà della donna
La libertà è un inviolabile: vero. Il punto è che la donna incinta non ha in grembo un ammasso di cellule, un fungo o un cucciolo di specie aliena bensì un essere umano. Il figlio concepito e non ancora nato è infatti persona a tutti gli effetti: ha un Dna unico ed irripetibile, già alla 6° settimana di gravidanza assistiamo alla formazione degli organi (polmoni, fegato, pancreas, tiroide, cuore che pulsa fino a 150 battiti al minuto, cervello distinto in tre differenti regioni) e, prima di nascere, sperimenta il dolore (Semin Perinatol.2007), risponde a stimolazioni esterne (Arch Dis Child.1994), intrattiene una vita relazionale (Neuroendocr. Lett.2001) memorizza fra le altre proprio la voce di sua madre (Acta Paediatr.2013). Circoscrivere l’aborto alla libertà individuale, dunque, è del tutto sbagliato. E comunque resta un dubbio: sicuri che una donna compiutamente informata dell’umanità del feto, degli effetti sulla propria salute dell’aborto e, soprattutto, messa dinnanzi a sostegni (non solo materiali) ed alternative (parto in anonimato), abortirebbe?
5. Perché tantissimi Stati lo prevedono
In effetti, spulciando gli ordinamenti giuridici vigenti, si scopre che è così. Ma la giustizia non è stabilita dalla maggioranza. Può quindi capitare – e spesso è capitato – che la maggioranza abbia torto, anche se si tratta dalla maggioranza degli Stati considerati avanzati. Un esempio storico è quello del commercio degli schiavi, pratica messa al bando per la prima volta nel 960 dalla Repubblica Serenissima di Venezia nel 960. Ebbene, se Pietro IV Candiano si fosse fatto intimidire o avesse preso a modello gli ordinamenti giuridici degli altri Stati, non avrebbe mai dato il buon esempio riunendo l’assemblea popolare e facendo approvare una legge che, per la prima volta nella storia, inaugurava il filone normativo anti-schiavista. Anzi, c’è da scommettere che più di qualcuno avrà ritenuto la decisione del Doge bizzarra, ingiusta o pericolosa. Allo stesso modo, chi osa criticare l’aborto legale, oggi, viene bersagliato da critiche di ogni tipo. Ma non ha affatto torto, proprio come non l’aveva, quella volta, Pietro IV Candiano. Si tratta di avere il coraggio – in Italia e non solo – di remare controcorrente, esercizio faticoso ma, quando la meta si chiama Giustizia, irrinunciabile.