Aborto selettivo, il vero femminicidio

Creato il 09 agosto 2013 da Giulianoguzzo @GiulianoGuzzo

Donne uccise e uccise in quanto donne: la differenza è abissale. Cambia tutto. Da una parte la donna è vittima, dall’altra è vittima in quanto donna, a partire da squallide e ancestrali discriminazioni che però, curiosamente, tardano ad essere riconosciute. Perciò se non fosse tragicamente serio, sarebbe di comico il fatto che il Governo italiano abbia scelto di impegnarsi nella lotta al cosidetto femmincidio trascurando bellamente il più spietato killer di donne di ogni tempo: l’aborto selettivo.

Stiamo parlando di un fenomeno vastissimo e segnalato già da tempo – la prima a sollevarlo, quasi trenta anni or sono, fu proprio una donna, Mary Anne Warren [1] – ma che continua a godere di una preoccupante  omertà. Omertà ad oggi infranta solo parzialmente dopo che, negli ultimi decenni, è iniziato ad emergere lo spaventoso bilancio della mattanza prenatale soprattutto laddove questa, complici legislazioni crudeli e mirate sul versante, ha maggiormente preso piede, e cioè nel continente asiatico. Parliamo di numeri che fanno paura solo a ripeterli.

Dal censimento indiano del 2011 è per esempio emerso che l’equilibrio fa maschi e femmine è sceso a 1.000 contro 914 mentre nel 1981 le femmine erano 962, nel 1991 945 e nel 2001 927; un calo drammatico. Peggio la Cina, dove la Fondazione per la ricerca sullo sviluppo ha chiesto un deciso ripensamento alla politica del figlio unico [2]. E da noi? Apparentemente tutto a posto, nel senso che non se ne parla. Eppure c’è. E chi ha provato più di altri a rompere il silenzio sul tema è stata, pure qui, una donna, Anna Meldolesi, autrice di un testo eloquente già nel titolo: “Mai nate” [3].

Libro di spessore ma, stranamente, praticamente ignorato. Così come quasi ignorata, tornando a noi, è la realtà italiana dell’aborto selettivo come prima e più spietata frontiera del femminicidio.  Si tratta di una realtà che ad oggi interessa per lo più le comunità asiatiche immigrate, ma che non sfugge alle statistiche. Che ci dicono, per esempio, come il sex ratio – cioè il rapporto tra maschi e femmine alla nascita, che in condizioni normali è di 105 a 100 – nelle comunità cinesi sia pari a 119 maschi contro 100 femmine, mentre arriva persino a 137 a 100 nelle comunità indiane [4]. Il che significa decine, anzi centinaia non di femmine uccise, ma di uccise in quanto femmine.

In America qualcuno ha pensato a dei rimedi – in Arizona, per esempo, Jan Brewer ha voluto una legge che impone a chi abortisce di dire che non lo fa per eliminare feti femmina o quelli il cui padre è di etnia sgradita -, ma da noi della «guerra alle bambine», tutta prenatale e quindi protetta dall’invisibilità apparente oltreché dall’indifferenza, continuiamo ad infischiarcene; e dire che, del vituperato femminicidio, è a tutti gli effetti la prima e più feroce frontiera. La stessa che, per ora, si consuma protetta dall’ombrello del diritto e della nostra ingenuità se pensiamo che un giro di vite contro la violenza sulle donne possa sul serio cambiare le cose.

Note: [1] Cfr. Warren M.A. Gendercide. Rowman & Allanheld, 1985; [2] Del Corona M. La Cina invecchia e ripensa la legge sul figlio unico. «Corriere della Sera», 1/11/2011, p. 21; [3] Cfr. Meldolesi A. Mai nate. Perché il mondo ha perso 100 milioni di donne, Mondadori, Milano 2011; [4] Cfr. La guerra alle bambine è qui. «Il Foglio», 31/03/2012, p. 3



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