“Celerino figlio di puttana.”
Questo è il ritornello che risuona a intervalli regolari nel film di Stefano Sollima.
A volte è un coro autoironico, intonato dagli stessi agenti del reparto antisommossa della Polizia di Stato. In altri casi è la macabra colonna sonora che anticipa i momenti più tesi della pellicola, in particolare l’imminenza degli scontri tra celerini e ultras.
ACAB – acronimo che significa All Cops are Bastards (I poliziotti sono tutti bastardi) – è uno dei migliori film italiani dal 2000 in poi.
Un film impegnato, ma non demagogico. Un film adrenalinico, ma non mediato da una fotografia glamour o chic.
ACAB è crudo, ha ritmo, funziona.
Una rarità.
Il regista segue da vicino la quotidianità – professionale e privata – di alcuni agenti della Celere: Mazinga, Negro e Cobra.
Lo spettatore fa la loro conoscenza al netto di un giudizio di parte. Sollima si limita a dirigere e a scrivere una storia corale, senza esprimere un parere personale e/o ideologico. Semmai li fa intravedere, intuire.
I celerini del film, e probabilmente quelli della realtà, sono servitori dello Stato. Sono sottopagati, mal equipaggiati, spesso lasciati da soli dalle stesse istituzioni che servono.
Alcuni di loro utilizzano la scusa del lavoro per sfogare un naturale istinto violento. Altri, la maggior parte, credono nel loro ruolo. Lo fanno fin quando capiscono che è lo stesso Stato a non credere in loro. A non tutelarli, a non proteggerli.
C’è una grande amarezza che permea ACAB, anche se essa non va a discapito dell’aspetto più pulp (chiamiamolo così) del film. I manganelli martellano crani, i sanpietrini sfondano i finestrini dei cellulari, le cariche tra agenti e ultras sono feroci espressioni dell’umana inclinazione allo scontro fisico, anche quando i motivi sono del tutto futili.
C’è dunque una doppia chiave di lettura, a comporre una storia retta da una regia impeccabile e da un cast in gran forma. Su tutti spicca Piefrancesco Favino (Cobra), celerino che alterna momenti e ideologie estremiste alla capacità di saper gestire le situazioni di crisi, soprattutto quando ci sono di mezzo i colleghi.
Marco Giallini (Mazinga) è il veterano del reparto, con una famiglia che va a pezzi, senza che lui se ne accorga, preso com’è dal peso della divisa.
Filippo Nigro è Negro, il terzo moschettiere, il più irascibile e il più fedele al senso di fratellanza della Celere.
Sullo sfondo, reali eventi di cronaca: la morte dell’ispettore Raciti, l’uccisione del tifoso laziale Gabriele Sandri, la macelleria messicana alla Diaz, che fa parte del passato più nero dei tre protagonisti del film.
Pellicola durissima, ma straordinaria.
Il cinema italiano sa anche fare queste cose, per fortuna.
(A.G. – Follow me on Twitter)