Nota a margine di un Campiello
Il Campiello 2010 forse di note e commenti a margine ne ha avuti fin troppi, grazie soprattutto a quel Vespa che, più che guardare le figure, in un libro guarda (e magari tocca) la scrittrice. Se n’è scritto e parlato tanto, anche qui. Purtroppo il lettore dovrà accontentarsi di un’altra nota periferica, come in fondo si addice al periferico paese atlantico da cui essa proviene. Stavolta, però, è squisitamente letteraria. Una sorta di abbozzo comparativistico, col fermo voto di non comparare i deretani di Silvia Avallone e Michela Murgia. L’idea di fondo è che l’“Accabadora” che dà il titolo al romanzo vincitore del Campiello ha un parente inatteso in un racconto di Miguel Torga (il lettore italiano lo trova nell’antologia del racconto portoghese curata da João de Melo e pubblicata da Cavallo di Ferro). Sembra quasi uno di quei rinvenimenti archeologici che gli studiosi fanno a distanza di chilometri e poi uniscono come tessere di un puzzle che disvela una civiltà sepolta.
Torga (1907-1995) fu uno scrittore sanguigno e tellurico; di quelli che hanno nella terra, nella zolla patria, una spinta non casuale alla propria scrittura. Questo tipo di intellettuali ha dato al Portogallo dei nazionalisti un po’ tronfi come Teixeira de Pascoaes, ma anche dei protosocialisti cristiani come Raul Brandão. Per Torga l’attaccamento alla terra, in particolare al Trás-os-Montes nativo, compensa la perdita di una fede ultraterrena. La religione è un mito giovanile e il paradiso un luogo da cui si esce prima di esservi entrati. Resta una religione dell’uomo solo e del poeta come stregone senza dèi, i cui incantesimi estemporanei dipendono da una musa capricciosa (una sua antologia poetica, a cura di Luigi Panarese, lusitanista per caso ma vero pioniere, è reperibile nel catalogo Passigli).
Alma-grande è titolo del racconto e nome del protagonista. I melomani ci potrebbero trovare degli echi mozartiani (“Alma grande e nobil core...”), ma a seguire questo Alma-grande, più che nel cuore dell’Europa galante si va a finire nelle viscere dell’indicibile, nella storia rimossa dei soprusi e dell’orrore. Infatti, nel paesino in cui vive, è noto come “abafador”, il soffocatore. Il personaggio di Michela Murgia, che dispensa eutanasie in Sardegna, ha un altro nome di origine chiaramente iberica: “acabar” significa finire. Sa femmina accabadora è la donna che non dà la vita, ma la toglie. Ti finisce.
Trás-os-Montes è terra di ebrei. In tempi duri, loro tenevano duro in questo impervio settentrione “oltre-i-monti”. Pare che l’alheira (la salsiccia inzeppata d’aglio in cui anche i turisti di passaggio prima o poi incappano) l’abbiano inventata lì. Serviva a dire: guardate, adesso il maiale lo mangiamo pure noi; dentro però c’era cacciagione. Il soffocatore di Torga è temuto e rispettato proprio nella comunità dei “cristiani nuovi”, i convertiti a forza, i marrani. Fingono tutta la vita una devozione a un papa estraneo, se non ostile, ma al momento della morte non vogliono, al capezzale, il parroco venuto a portare i sacramenti cristiani. È questo il momento di chiamare il soffocatore. Vive in una casa appartata, ma basta gridare “Zio Alma-grande!” e quello arriva. Qui l’incontro fra il boia e il moribondo non ha la raffinatezza teologica dei dialoghi con la morte di un morality play o di un film di Bergman. E la dolcezza è un prefisso oscuro perso nell’etimologia di “eutanasia”. La morte s’incarna in un energumeno che ti mette le mani al collo e il ginocchio sullo sterno, sordo alle urla: “Ancora no! Ancora no!”
Il finale sarà una rivalsa dell’istinto umano sulla “ragion divina”. Sarà l’eccezione che conferma la regola, ma inferno o paradiso almeno stavolta potranno attendere.