da Il Gazzettino la rubrica “Mischia aperta” di Antonio Liviero
Dal Sudafrica non arrivano segnali incoraggianti sul futuro del rugby italiano. Il Mondiale Under 20, che ha incoronato per la prima volta i baby Springboks (22-16 in finale sulla Nuova Zelanda) ci ha relegato all’ultimo posto dopo la sconfitta con le Figi 19-17: zero vittorie, 210 punti incassati e 54 segnati. Lo scorso anno in Veneto, gli azzurrini si erano salvati contro i tongani all’ultima giornata. Cambiata la guida tecnica, i risultati non sono migliorati. Anzi, c’è l’aggravante di una retrocessione nella seconda categoria del rugby giovanile dopo una stagione in cui i ragazzi dell’Accademia federale (la quasi totalità della
nazionale) hanno potuto giocare nel campionato di Al. Non so a chi verranno addossate questa volta le responsabilità. Il punto è un altro, più profondo: serve una messa in
discussione del sistema di formazione e selezione. Non necessariamente per liquidarlo. Ma anche solo per rafforzarlo ed eventualmente correggerlo.
Una base più larga è la priorità. I fatti dimostrano che i praticanti effettivi, specie a livello juniores, scarseggiano visto che sono state accorpate due categorie in una sola, dando vita a una Under 20 pazzesca che ingloba 4 classi d’età. Un modo sicuro per perdere la generazione dei diciassettenni.
Sull’aspetto tattico certe idee i sono, come quella di formare giocatori intelligenti sul
terreno in grado di leggere le situazioni di gioco e diprendere le giuste decisioni. Un
indirizzo ambizioso. Ma quanti lo seguono veramente nei centri federali e nei club? A
quale età bisogna cominciare e con quali priorità didattiche? La stessa federazione non ha brillato per continuità e coerenza di metodo. E comunque è macroscopica la carenza nella tecnica individuale, a cui bisogna trovare subito un rimedio.
Passi avanti significativi vanno fatti a livello di formazione muscolare. A 20 anni le qualità di base ci devono essere già. Sappiano ad esempio che le doti di resistenza si sviluppano fin da giovanissimi. Ma vedo ragazzini che in una domenica mattina non corrono più di 5 minuti. Quanti centri e club utilizzano specialisti per migliorare gli appoggi al suolo? Quanti sono incoraggiati a frequentare le scuole di atletica o a praticare attività di resistenza a piedi,
in bici o in canoa? So che qualche società lo fa, e anche molto bene. Ma è sufficiente a
livello di movimento?
C’è poi il capitolo della solidità mentale. Una forza decisiva. Ci sono talenti sul piano fisico e tecnico che non emergono a causa di limiti mentali e comportamentali. Ma i prerequisiti psicologici possono essere allenati. Il contatto fisico va insegnato in tutta sicurezza. La combattività si sviluppa. L’autocontrollo, la tenacia, la gestione dello stress si possono imparare. Questi aspetti devono essere fonte di attenzione costante per gli educatori e gli allenatori incaricati della formazione.
C’è parecchio da fare, dunque. A cominciare da un confronto tra i candidati alla presidenza della Fir. E da un uso del voto consapevole da parte dei club, orientato alla qualità del loro futuro più che da logiche clientelari. Un’occasione da non perdere.





