In questa simulazione, due pacchetti di elettroni accelerati da una colonna di plasma generata con un laser all’interno di un “forno” di gas di litio caldo. Crediti: SLAC National Accelerator Laboratory
Altro che scie chimiche: la nuova frontiera sono le “scie fisiche”. E se le prime altro non sono se non una bufala messa in piedi per la gioia dei complottisti, i “campi scia” – wakefield è il termine tecnico – che stanno facendo sognare i fisici delle particelle non si manifestano come screziature nel cielo al seguito degli aerei, bensì sotto forma di onde di plasma, grazie alle quali gli elettroni riescono a raggiungere livelli d’energia impensabili per acceleratori di piccola taglia.
Una conferma autorevole della validità di questa tecnica, della quale si parla da almeno 35 anni, giunge ora dalla Facility for Advanced Accelerator Experimental Tests (FACET) dello SLAC National Accelerator Laboratory, il laboratorio nazionale statunitense gestito dalla Stanford University per conto del Dipartimento dell’energia. Gli scienziati, spiega un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Nature, sono infatti riusciti ad accelerare pacchetti (bunches) di elettroni fino a energie dalle 400 alle 500 volte superiori a quelle che avrebbero raggiunto in un acceleratore tradizione della stessa lunghezza.
«In un acceleratore, gli aspetti pratici sono in gran parte determinati dalla velocità alla quale le particelle possono essere accelerate. Ciò che siamo riusciti a dimostrare», spiega il primo autore dello studio, Mike Litos, «è che, grazie a questa tecnica, in appena 6 metri potremmo riuscire ad accelerare un fascio di elettroni fino ai livelli d’energia attualmente raggiungibili nell’acceleratore lineare dello SLAC, lungo circa 3 km».
Numeri che fanno impressione. Qui si parla di decine di GeV: com’è possibile arrivare a un risultato del genere con un acceleratore in miniatura? Il principio è analogo a quello per cui un surfista, scendendo di traverso lungo la parete d’acqua, riesce a toccare velocità assai superiori a quelle dell’onda che sta cavalcando. Nel test messo a punto dai ricercatori dello SLAC, il “mare” è costituito da una colonna di plasma, in questo caso gas caldo di litio. A “sollevare le onde” è un primo pacchetto (drive bunch) formato da qualche miliardo d’elettroni, sparato contro gli atomo di litio così da spazzare via gli elettroni liberi. Elettroni che subito ritornano, ed è proprio sul solco di quest’onda di ritorno che “scivola” come un surfista un secondo pacchetto d’elettroni (trailing bunch), riuscendo a raggiungere velocità altrimenti impensabili in un tragitto così breve.
Considerati i costi proibitivi prospettati per eventuali successori di LHC, è ovvio che tecniche come questa catturino l’interesse dei fisici delle particelle. Ma i campi in cui l’accelerazione wakefield potrebbe trovare impiego vanno ben al di là della ricerca di base: è infatti in ambito industriale e medico che la disponibilità di acceleratori potenti, economici e in miniatura fa sempre più gola.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “High-efficiency acceleration of an electron beam in a plasma wakefield accelerator“, di M. Litos et al.
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina