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Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlano contro. Non c'era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria.
Ho finito di leggere “Acciaio” qualche giorno fa. È un romanzo di Silvia Avallone, una ragazza giovane, laureata in Filosofia, con i capelli ricci simili ai miei. Parla di un'amicizia, che forse è anche qualcosa in più. Un'amicizia tra due ragazzine che vivono in un palazzo popolare, in via Stalingrado, vicino al mare toscano di Piombino. Le loro giovani vite di quattordicenni sono tutt'altro che semplici, entrambe hanno pessimi padri e madri sottomesse. Ecco, le donne di “Acciaio” sono fragili, sole, senza sogni, capaci solo di accontentarsi. La madre di Anna distribuisce volantini per Rifondazione Comunista, partecipa alle feste, legge Liberazione, ma in fondo anche lei è succube di un marito che non è poi tanto onesto. Per la figlia quattordicenne però sogna un futuro radioso, lo stesso futuro che sogna la stessa Anna: andare via e diventare qualcosa di importante. Un ministro. Un presidente. Presidente della Repubblica. Lottare per gli operai come suo fratello, Alessio, che, come molti altri giovani di Piombino, produce l'acciaio. È un lavoro duro, pesante, ma è pur sempre un lavoro onesto. Per Alessio è meglio fare l'operaio siderurgico piuttosto che il ladro come suo padre. I suoi stipendi li butta in strisce di cocaina che gli fanno apparire la vita meno dura, una volta non era dura la sua vita, una volta c'era Elena, che amava studiare. Per andare all'università aveva perso l'amore. Alessio, dopo tre anni, ancora pensa a lei, all'unica donna che abbia davvero amato. Francesca è figlia unica ed è bellissima, bionda, alta, magra. Anche lei, come Anna, in un certo senso vorrebbe andare via, ma senza studiare, Francesca vorrebbe solo vincere Miss Italia. Dal mare di Piompino si vede l'isola d'Elba in cui né Anna né Francesca sono mai state. Per loro l'Elba, a un passo da casa, è un sogno. La storia si snoda tra corpi scoperti, gambe lunghe, gelosie, incomprensioni, orgoglio, paure, amori. Amori vissuti, amori rifiutati, amori rimasti in sospeso. Di tanto in tanto si affaccia la storia: il crollo delle torri gemelle che sembrava fosse un film all'inizio, tutti guardano la tv senza capire, poi si rimettono a giocare a carte come prima; la crisi che significa taglio del personale, licenziamenti; le morti bianche sul lavoro. Questo libro mi è piaciuto molto, mi è sembrata una bella storia, a tratti leggera e disinibita, a tratti dura, a tratti addirittura commovente. Magari nel 2001 Scamarcio non era ancora un idolo delle ragazzine come dice la Avallone, ma chi se ne importa, è solo un dettaglio insignificante ai fini del romanzo. Mi è piaciuto il modo in cui sono descritti i luoghi e le persone, mi è piaciuto il non descrivere una gioventù romanzata alla Federico Moccia, mi sono piaciuti i ritratti pieni di difetti dei miei coetanei. Ragazzi di vent'anni che si drogano, consumano il loro tempo nei locali a luci rosse, diventano padri ma non vogliono fare i padri, si mettono nei guai con la giustizia, scappano, tornano, provano a migliorare, amano o vorrebbero farlo, sbagliano. Insomma, un bellissimo libro, bellissimo anche se non ho potuto immedesimarmi né in Anna né in Francesca. A quattordici anni, infatti, non ero disinibita come loro, ero più come Lisa, una secchiona che sognava di scrivere un libro e che alle feste se ne stava in un angolo a guardare le altre ballare. E a volte, come Lisa, sono stata superficiale nel pensare che chi aveva la taglia giusta e l'altezza giusta per spiccare in mezzo alle altre non poteva avere alcun motivo per lamentarsi.
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