Quaranta milioni dollari non sono pochi ed è tuttavia la cifra spesa fino ad dalla lobby Aipac (American Israel Public Affairs Committee) per tentare di convincere i congressisti Usa a bloccare l’accordo con l’Iran a settembre. Non è facile perché Obama ha già detto che porrà il veto in caso di bocciatura e occorrerà una maggioranza di due terzi del congresso per superarlo. Così campagne di stampa e pubblicitarie si accavallano in 35 stati dell’unione e vengono organizzati tour in Israele per 58 parlamentari. Questo senza contare altre decine di milioni promessi dal magnate dei Casinò Sheldon Adelson, per il medesimo scopo.
La cosa straordinaria è che lo sforzo estremo di Netanyahu per sabotare l’accordo sembrerebbe del tutto paradossale visto che proprio l’altro giorno il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Gadi Eizenkot, ha lanciato un appello, firmato tra l’altro da 40 generali, perché il governo accetti il patto sul nucleare di Teheran. Nell’appello che in realtà è un vero e proprio documento di 33 pagine, si dice in sostanza e in totale contraddizione col governo che l’Iran non è una minaccia per Israele, quanto meno non una minaccia diretta, che occorre lasciar perdere l’idea di colpi di mano e preservare l’amicizia con gli Usa. Singolare che questo appello al buon senso e alla concretezza giunga dai militari e non dal centro sinistra che nel suo competo naufragio si è accodato a Netanyahu nella demonizzazione dell’accordo.
La cosa interessante è che sia il premier della destra (ormai definibile estrema) sia Eizenkot riconoscono come vitale per Israele l’alleanza con gli Usa. Ma probabilmente pensano a due tipi di alleanza diversa: il generale come terreno di deterrenza a livello globale nei confronti delle potenze regionali alle quali si aggiunge l’Iran, il premier a un’alleanza che sia anche fonte di privilegio politico e soprattutto di impunità per le sciagurate avventure contro la striscia di Gaza o altrove e per l’imposizione di muri e insediamenti, Eizenkot fa un discorso per la sicurezza di Israele, Netanyahu invece non fa altro che dar logica conseguenza alla sindrome del bunker che del resto è riuscito ad imporre a tutto il Paese e che come sempre si accompagna alla drammatica disponibilità a qualsiasi avventura, purché si abbiano le spalle coperte.
Questa logica impone che gli Usa rimangano invischiati mani e piedi nella casba geopolitica del Medioriente come partner e ufficiali pagatori del caos, assieme all’Arabia Saudita, mentre Washington oggi ritiene di dover trasferire buona parte della propria ingiustizia imperiale in altre regioni, dall’ Ucraina al Mar della Cina, all’Europa del Ttip e delle migrazioni epocali, giusto contrappasso per l’opera di rapina di guerra condotta per decenni in Africa e in Asia. Del resto il progetto di fare della Siria una sorta di buco nero perenne servendosi dell’importazione di migliaia di terroristi takfiri e trasformando l’opposizione in uno strumento bellico è clamorosamente fallito: alla fine tutto questo, assieme anche alle menzogne date in pasto al subalterno sistema mediatico (valga per tutte la vicenda dei gas che pare ricalcare quella dell’areo malese in ucraina), non è servito perché una gran parte della popolazione siriana si è opposta alla dissoluzione del Paese. Una sconfitta per lo stratega delle indecisioni e improvvisazioni Obama, riconosciuta apertamente anche dall’ex ambasciatore a Damasco, Robert Ford, burattinaio del “terrorismo amico.”
Ma Netanyahu non ci sta: sta sbagliando secolo e tenta in ogni modo di creare le condizioni perché non vi sia mai una normalizzazione in Medioriente, facendo emergere una paradossale e purtroppo diffusa mentalità di fondo: cioè che la vita di Israele ieri come nel futuro sia legata ad una sorta di stato di eccezione da alimentare ad ogni costo. Stato che non troppo tra parentesi fa molto comodo alla classe dirigente che ne trae grandi vantaggi. Si tratta di un vicolo cieco la cui fine è già visibile, già annunciata.