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Achille Starace
2. Buttatelo giù per le scale.
Ma torniamo nelle brume e nella nebbia di Milano, dove Starace era andato a vivere alla fine del 1944, reduce dal campo di concentramento di Lumezzane, dove l’aveva relegato il suo amato duce. A Milano c’era il figlio Luigi, debole e smidollato, che l’aveva rinnegato per timore dei facoltosi suoceri; lì c’era anche la moglie che da buona triestina lo aveva mandato a scoa’ el mar, ma con tutte le ragioni del caso avendola egli segregata a Gallipoli per tutta la sua folgorante e luminosa carriera. Starace è ormai un ingombro, uno zero assoluto, uno sbandato privato di tutto, di un ruolo, di un lavoro e di una dignità. Ma è rimasto fedele al regime e a esso chiede disperatamente un appiglio, un nuovo approccio, una possibilità di riscatto, un ultimo appello, nonostante i mille silenzi e i brutali dinieghi del duce (“Se si presenta ancora qui buttatelo giù per le scale di Palazzo Venezia”, aveva ordinato Mussolini).
Si trova in condizioni di estrema povertà, è affamato (ha trasformato il giardino di casa in cui vive in un orto e vi coltiva rape e cicoria), né riesce in alcun modo a risollevarsi. Col quel nome che si ritrova, nessuno gli dà un lavoro, neanche il più umile. Inizialmente aveva tentato di metter su una società d’affari immobiliari, la Glaxo, ma l’iniziativa era fallita perché il suo nome è inviso, tant’è che i suoi due nipoti, figli di Luigi, lo cambieranno in “Viola”, nome della madre.
Si può ben dire che l’ex gerarca è giunto “nudo alla meta”, proprio come il duce aveva ordinato agli italiani, ma da sconfitto e non da vincitore. E con tutto il suo lungo passato assoluta dedizione, soggezione e cieca obbedienza, nudo, a ben vedere, lo era sempre stato dinanzi al Duce. Del resto, – aveva scritto Montanelli -, “quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo davanti a lui. Ma anche lui sta nudo davanti a noi. Lo amiamo? Non credo. Ma forse sarà meglio lasciare nell’ombra di una certa indeterminatezza questo complesso rapporto tra lui e noi o l’inquietudine continua in cui ci tiene. Amarlo. Ma non desiderare di essere le favorite dell’harem”.
3. La mia fede non ha mai vacillato.
E invece lui quello aveva sempre desiderato di essere, la favorita dell’harem di Mussolini, fin da quel lontano giorno in cui lo conobbe, a Milano, nella sede del Popolo d’Italia, a pochi passi dal Duomo. Lui, il giovane capitano dei bersaglieri, eroe della prima guerra mondiale, con tanto di medaglie d’argento e di bronzo appuntate sul petto, e la fronte imperlata di sudore per l’emozione di stare al fianco dell’indiscusso capo del fascismo, Benito Mussolini, che aveva fatto la guerra pure lui, ma da oscuro caporale e senza compiere alcuna impresa memorabile. Mussolini lo squadra, poi lo guarda negli occhi, “Siete coraggioso – gli dice – Meritate di fare il segretario del Fascio a Trento. Partite subito“. Quell’uomo fatale per tutti gli italiani (“chi si riconosce genio e faro delle genti, non sospetta d’essere un moccolo moribondo, o un quadrupede ciuco”) sarebbe stato, fino alla fine della sua vita, il suo Capo, il suo Dio, il suo Tutto.
Continuava a venerarlo anche ora, nonostante l’avesse messo al bando, umiliato e scacciato come un cane rognoso, messo in prigione, relegato in un campo di concentramento. Continuava a scrivergli lettere appassionate: “Non sono mai venuto meno al mio dovere La mia fedeltà è stata, è e sarà quella che voi conoscete. La mia fede in voi mai ha vacillato, e mai vacillerà, anche se foste abbandonato da tutti.” Ma proprio cieco e stupido, Starace non doveva essere se a uno dei rari amici che gli erano rimasti aveva detto: “Sono stato soltanto il funzionario imperiale che provvedeva alle plebi i giochi del circo, ma ora è finita, finita per sempre”.
E che era finito tutto, il fascismo e la guerra, se ne era accorto molto prima, in Albania, nel 1941, ma aveva avuto il torto di dirlo al re, a quattrocchi, e ciò gli costò il posto. A Mussolini non avrebbe mai osato dirglielo.
4. Dove vai, Starace?
Ma ora è proprio tutto finito, per i fascisti, in quel rigido fine Aprile del 1945 (“Aprile è il mese più crudele”), che fuggono da tutte le parti e cercano una difficile, impossibile, via di scampo, ed è proprio lui, paradossalmente, che non è smontato di cavallo, non sembra accorgersi di quello che sta accadendo intorno a lui, a due passi da lui. A Piazzale Loreto. Non fa nulla per occultarsi, per squagliarsela in Puglia, nel suo Salento, né aveva voluto farlo prima, quando forse era ancora possibile, ma sapeva bene che anche nella sua regione, in quell’estremo tacco del sud, non era amato. A parte i baresi e i foggiani che avevano il loro ras in don Peppino Caradonna, i leccesi non lo volevano affatto come loro ras, anzi i leccesi non volevano alcun ras, e lui lo avevano più volte contestato e sfottuto. A Lecce ancora oggi qualcuno ricorda la memorabile pernacchia che gli aveva fatto Carmelo Greco, un vero artista nel suo genere, capace di intonare colle sue terribili pernacchie Giovinezza e la Marcia reale. E i gallipolini? Beh, praticamente lo hanno sempre ignorato, com’è loro abitudine per tutti coloro che non vivono sullo scoglio-universo-mondo. Hanno fatto così anche con i padri della patria. Ma a dirla proprio tutta, i gallipolini se ne vergognano un po’. Infatti nessuno protesta quando si dice che è nativo di Sannicola, paese fantasma, com’è nella realtà dei fatti, ma allora era solo “Villa San Nicola”, una delle tante frazioni di Gallipoli, coi suoi bei “casini”, che si possono ammirare tutt’ora, veri e propri gioiellini architettonici, villini dove i nobili e i ricchi borghesi gallipolini passavano l’estate, e in uno di questi splendidi casini nacque don Achille, anno di grazia 1889, il 19 agosto, segno del Leone.
Intanto i partigiani, i giustizieri rossi sono a caccia di gerarchi fascisti, assetati di vendetta. E hanno dipinte sui volti le insegne di guerra, volti pieni di odio e di una ferocia totale, occhio per occhio, dente per dente; sono in cerca di scalpi, ed ecco scorgono il suo mentre fa jogging per le vie di Milano. Questa mania della ginnastica, che sconfinava nel delirio psichico, lo accompagnò sempre, e forse lo aveva salvato dalla pazzia, quando Mussolini lo aveva fatto rinchiudere nelle prigioni degli Scalzi di Verona, per oltre sei mesi, e poi lo aveva mandato nel campo di concentramento di Lumezzane, dove era stato altri tre mesi.
I partigiani sono sorpresi, increduli nel vedere un gerarca così famoso come lui andarsene di corsa per le vie della città, come un cittadino qualsiasi, ignaro degli accadimenti delle ultime ore, Dove vai, Starace, gli grida un giovane partigiano dalla camionetta. Vado a pendere un caffè!, risponde lui. Ma le battute scherzose si fermano qui. Un attimo dopo scendono dal camion tre partigiani, gli spianano contro i mitra, e sotto una gragnuola di calci pugni sputi e improperi d’ogni sorta, lo sospingono in un’aula del Politecnico, dove viene sottoposto ad un processo sommario, che si conclude rapidamente con la condanna a morte. Avrebbe potuto dire a quella sorta di Santa Inquisizione Rossa che era un poveraccio, uno che faceva la fila alla mensa di guerra, uno che non contava nulla ormai da tempo, un fantasma. Anzi avrebbe potuto dir loro che il primo ad averlo punito per colpe mai commesse era stato proprio il fascismo e che Mussolini in persona lo aveva fatto imprigionare e mandato in un campo di concentramento.